Da Hemingway a Giletti: in morte di una “mansione” giornalistica

cronistaguerra3Signori della Corte – di un ipotetico tribunale del buon giornalismo, composto da buoni lettori/tele/ascoltatori – non ho altro da chiedervi se non clemenza. Abbiate pietà della “mansione” alla quale appartengo ancora per poco, quella dell’inviato speciale. Il reportage dal Kurdistan di Massimo Giletti non è che il colpo finale al cavallo azzoppato; l’atto conclusivo, la conferma di morte avvenuta per una figura giornalistica un tempo dignitosa: quella dell’inviato speciale e della sua sottospecie, il corrispondente di guerra.

Non tutti guardano la televisione e, se lo fanno, non tutti si sintonizzano con la Rai. E’ necessaria una breve cronaca: a proposito, non è messo bene nemmeno il lavoro del cronista, un tempo passaggio obbligato per diventare un decente inviato. Lunedì in seconda serata il primo canale Rai ha mandato in onda un reportage di guerra di Massimo Giletti. Di solito Giletti conduce dentro Domenica In un piccolo talk show, sottomarca di Porta a Porta.

In realtà quel reportage dal Kurdistan è un marchettone allo Stato Maggiore delle Forze Armate: l’obiettivo era parlare dei nostri ragazzi della Folgore, loro sì tosti, che addestrano i curdi a combattere. Come scrive Aldo Grasso sul Corriere di oggi, è stato scelto Giletti “forse perché gli uffici stampa del ministero della Difesa hanno una concezione tutta loro dell’autorevolezza”. Toglierei il forse ed esorterei il generale Claudio Graziano, un alpino concreto, a far vedere un po’ meno entertainment tv ai suoi addetti stampa.

Come inviato e vecchio corrispondente di guerra, praticamente un reduce, non intendo denunciare un bel niente: non voglio fare il sacerdote trombone di una religione intoccabile. Sebbene mi chieda: perché arrivano i Carabinieri se mi presento in camice bianco al Fatebenefratelli e tento di fare il medico? Perché invece mi deve capitare d’incontrare medici, ingegneri, avvocati, commercianti che mi chiamano “collega” perché, autori di qualche articolo sui loro organi professionali, sono iscritti all’albo dei “Giornalisti Pubblicisti?”. Chiedo a voi lettori, signori della corte: è così generico e banale il mestiere che faccio da quasi 40 anni, al punto che chiunque possa farlo?

E’ una ragione in più per ricordare l’inutilità dell’Ordine dei giornalisti che sopravvive a XXI secolo iniziato da tempo. Ma non è questo il tema del post. Torniamo a Giletti. Di lui mi ha irritato quel presentarsi in elmetto e giubbotto anti-proiettile, con un tono da “sto rischiando la vita per informarvi”, mentre attorno a lui i peshmerga erano in maniche di camicia e a capo scoperto. Teneva la testa bassa per evitare un presumibile inferno di razzi, bombe e cecchini dell’Isis oltre quella trincea dalla quale i suoi accompagnatori si sporgevano senza mostrarsi preoccupati. Come membro della categoria mi sono sentito in qualche modo umiliato da quel suo tono un po’ da John Wayne in Rio Bravo, un po’ da piacione italiano. L’elmetto è una conseguenza degli obblighi assicurativi, la postura no.

Un vecchio inviato di guerra del Mattino di Napoli, arrestato dai serbi, poi dagli iracheni e ora in pensione, sintetizzava questi comportamenti con la traduzione italiana di un detto partenopeo a lui caro: “la vulva in mano agli infanti a mo’ di trastullo”.

Ma i difetti del Giletti fai da te non sono molto diversi da quelli di molti inviati apparentemente più esperti. Vi ho già precisato che non voglio difendere la “mansione”: è così che viene chiamata nel contratto nazionale di lavoro, non è nemmeno più una qualifica.

Potrei scrivere un romanzo sulla nostra fauna. C’è l’inviato d’albergo: durante la seconda Intifada ce n’era uno che raccontava tutte le battaglie dei Territori occupati, tenendo una Lonely Planet sulla scrivania della sua camera a Tel Aviv. C’è l’inventore e c’è il ladro di storie d’altri. E c’è il falsario: il collega che dice di essere stato anche lui inviato di guerra per aver seguito un ministro a Sarajevo o una visita guidata nel Sud del Libano. Con il giubbotto senza maniche e il Victorinox in una delle sue mille tasche…che brivido. Giuro sulla testa dei miei figli di averne indossato solo uno, in vacanza in Namibia con loro.

Ma il difetto più grave di noi inviati di guerra, anche dei più seri e dei meno sboroni (così pochi, quasi da non esisterne), è quella che chiamerei la sindrome da raduno nazionale degli alpini. Cioè il reducismo. Guai a trovarvi attorno a un tavolo con due di noi: vi massacreremo con le nostre storie.

Anche il difetto principale mostrato da Giletti è abbastanza comune fra i colleghi televisivi più esperti: credere che la notizia siano loro che vi raccontano la notizia, e non la notizia che loro devono raccontare. A parte il grande Ben Wedeman, alla Cnn la spettacolarizzazione è un trademark. Lyse Doucet e Jeremy Bowen della Bbc sembrano la signora Pina e un vecchio signore inglese, ma sulla notizia o nel reportage sono giganti dell’understatement e della completezza del racconto.

Per tutto questo, lettori/tele/ascoltatori vi chiedo di avere pietà di noi inviati ma soprattutto di Giletti. Punite noi, noi lui: lui ha solo tentato di scimmiottarci perché alla fine il nostro è il mestiere più bello del mondo. Un mestiere – questa è la notizia – che sta scomparendo.

  • roberto |

    Caro Ugo, Ferdinando ha riassunto perfettamente!!! Un caro saluto (ex-beirutino) ad entrambi.

  • ArturSilvio Tiseno |

    Se assieme agli inviati/pavoni/improvvisati ci mettiamo lo sfruttamento dei giovani cronisti (i quali vivono praticamente di elemosina), i salotti televisivi giustizialisti, dove lo pseudogiornalista alla D’Urso si improvvisa anche giudice, e certi ”giornali online” che pubblicano solo panzane, in barba a deontologia e a un minimo di dignità, è fatta: l’informazione, in senso alto, è morta.

  • ferdinando pellegrini |

    caro ugo, che dire!!!!!

  • Luca Sola |

    Caro Ugo, la ringrazio di cuore per le molte verità che trovo nel suo pezzo. Dall’Ordine all’indegno presente della Professione. Nonostante la differenza anagrafica mi fa sentire meno solo. Perché di solito siamo noi freelance quasi “senza nome” a lamentarci dell’andazzo generale. Pochi colleghi con una certa esperienza o blasone (o contratto) si prendono la briga di scrivere cose del genere..

  • Attila |

    Gent.le Sig. Tramballi, ho avuto modo di seguire il programma televisivo di cui lei scrive. A mio parere, era facilmente comprensibile da ogni telespettatore che il Sig. Giletti, nella circostanza, fosse portato a spasso dalle nostre truppe militari e che quello che stava facendo centrasse poco o nulla il concetto di reportage da un’area di crisi in teatro operativo. La competenza richiesta al telespettatore per capire ciò, era quella di aver visto o letto, almeno una volta nella vita, un servizio giornalistico serio su un fatto di guerra. La sua analisi, quindi, ritengo aggiunga poco all’ovvio. Più probabilmente, vuole difendere una “mansione” che ritiene minacciata da “chiunque possa farlo”. Dimentica, però, che pochi scelgono di rischiare la vita per raccontare quello che vedono e di sicuro non sono “medici, ingegneri, avvocati, commercianti”, ma persone motivate ad iniziare o continuare a praticare una missione, che è quella di informare i propri simili con ogni mezzo utile a farlo. Scritto questo, la saluto cordialmente, aggiungendo solo che condivido il suo pensiero circa l’inutilità dell’Ordine dei Giornalisti. Difende corporativisticamente, ormai, solo persone come lei, senza alcun riguardo alla qualità del lavoro prodotto – eventualmente dall’indegno pubblicista – e mostrando tanta miopia, quanta scarsa attenzione alla tutela del giornalista/pubblicista, nel proprio lavoro, ed alla sua retribuzione.

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