Obama è un’anatra zoppa e la sua sconfitta accelera la fine dell’impero americano. Punto. Avanti il prossimo presidente. L’avrete già sentito fino alla noia in queste ore su radio e tv, e lo leggerete ancora di più nei commenti dei giornali di oggi e di domani. Fanno parte della ripetitiva reazione da cane di Pavlov della stampa: come “bomba d’acqua” quando piove più del solito, “mal di pancia” quando un politico dissente dalla linea del suo partito o “scontro” se due ministri hanno opinioni diverse.
E’ la stampa, bellezza, la stampa. E tu non ci puoi fare niente. Nemmeno la stessa stampa può fare qualcosa per rendere meno banali le necessarie semplificazioni giornalistiche di un prodotto che si brucia in poche ore. Indro Montanelli sosteneva che il mestiere del giornalista è raccontare agli altri quello che lui non ha capito. Fosse stato un giornalista anglosassone lo avrebbero licenziato per una simile confessione.
Basta una semplice consultazione di Wikipedia per scoprire che quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno perso le elezioni di midterm nel loro secondo mandato; e che anche i più grandi fra loro hanno governato con un Congresso controllato dal partito avverso. E’ l’equilibrio del sistema americano che a un presidente attribuisce poteri da dittatore democratico e contemporaneamente crea le condizioni perché sulla collina del Campidoglio ci sia quasi sempre un contrappeso.
Con questa sconfitta l’immagine di Barack Obama apparirà indebolita, soprattutto all’estero. Ma soprattutto fuori dall’America nei prossimi due anni il presidente sarà anche più libero di agire: poiché fra i democratici nessuno cercherà l’appoggio di un presidente così impopolare, Obama non dovrà preoccuparsi di fare cose che possano minare le possibilità del suo partito di vincere le presidenziali fra due anni. Potrebbe perfino imporre a Bibi Netanyahu un piano di pace con i palestinesi, permettendosi d’ignorare le pressioni, le grida e il denaro dell’Aipac, per eccellenza la lobby americana a favore d’Israele.
Ma con o senza il Congresso, Barack Obama ha spiegato il primo obiettivo dei prossimi due anni in apparente libertà a David Remnick, il direttore del New Yorker: “Se fossimo capaci di convincere l’Iran a operare in modo responsabile, potremmo vedere svilupparsi un equilibrio fra gli stati sunniti del Golfo e l’Iran sciita, nel quale ci sia competizione, forse sospetto, ma non guerra diretta né per procura”. E’ il grande disegno, l’idea che il Medio Oriente possa diventare una tavola rotonda nella quale ogni stato sia potenzialmente uguale agli altri, e attorno al quale gli Stati Uniti siano arbitri, non sceriffi. Insomma, una Pace di Westfalia mediorientale.
Allego in coda a questo post l’articolo uscito oggi sulle pagine cartacee del quotidiano, dedicato alla politica estera americana nei prossimi due anni. Penso che questa Città del Sole nella più caotica delle regioni del mondo non sia realizzabile in due anni e nemmeno in dieci. Tuttavia qualche mattone importante Obama potrebbe lasciarlo, a futura memoria.
La questione di fondo è se davvero gli Stati Uniti siano così decisamente avviati sul viale del tramonto imperiale. Investendo nella difesa solo il 4% del suo Pil, l’America resta la prima potenza militare, raggiunta appena dalla somma delle venti successive, la gran parte delle quali alleate degli Usa. Cresce la sua demografia ed è ancora la prima economia al mondo: è seconda nella manifattura ma prima nell’aerospaziale e nella farmaceutica, cioè alta tecnologia. Con l’Unione europea e alcuni altri alleati chiave, gli Usa guidano un sistema occidentale con una popolazione pari al 70% di quella cinese ma tre volte di più grande per ricchezza.
Qualche anno fa il Nobel per l’Economia Robert Fogel aveva previsto che nel 2040 l’economia cinese crescerà di sette volte, raggiungendo i 123mila miliardi di dollari: tre volte più di quanto sarà quella americana. Ma bisogna vedere se nel prossimi 26 anni l’immensa fabbrica cinese continuerà ininterrottamente a crescere con lo stesso passo dei trenta precedenti. Jim O’Neil, l’economista che aveva inventato il termine Brics per indicare i paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha spiegato al New York Times che riguardo a Cina e India la crescita sarà spedita fino a quando durerà il loro processo di urbanizzazione. “Fino a che non si avvicineranno al 70%, se e quando lo faranno, è possibile che la crescita continuerà. Ma c’è molta strada da percorrere”. Al momento il 50% dei cinesi e il 35 degli indiani oggi vivono nelle città.
Il presidente è ancora in sella e l’America ha forza e tempo ancora dalla sua parte. E’ probabile che fra qualche anno dovremo rimpiangere il tentativo fallito di Barack Obama di fare dell’America un Paese meno aggressivo e più simpatico.
Allego l’analisi sulla politica estera americana uscita ieri sul Sole-24 Ore e l’intervista di qualche giorno fa fatta a Washington a Zbigniew Brzezinski.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-05/la-politica-estera-non-cambiera-063937.shtml
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-25/brzezinski-ucraina-decisiva-putin-non-e-pi…