Abbiamo finalmente il nuovo ministro degli Esteri. Il terzo del 2014, dopo Bonino e Mogherini: suppongo sia uno stress per la Farnesina e il suo apparato. Prima di provare a dare un giudizio sulla scelta di Paolo Gentiloni, vorrei soffermarmi sul meccanismo di selezione che ha portato a questa decisione.
Sapevamo da tempo che Federica Mogherini era stata scelta per andare all’Unione europea. In un Paese normale, credo, il premier dovrebbe avere in mente il nome del successore nel momento stesso in cui candida la sua ministra degli Esteri a un altro incarico: eventualmente qualche giorno più tardi, nel caso in cui la sua agenda sia particolarmente impegnativa. Quella di Matteo Renzi certamente lo è ma anche per un Paese di seconda fila e piuttosto insulare come il nostro, in fondo gli Esteri sono una cosa importante.
Alla dodicesima ora abbiamo invece scoperto che c’era solo una rosa di candidati. Una rosa piuttosto mobile: qualcuno entrava, altri ne uscivano come nella classifica della Hit Parade. Era così difficile scegliere un ministro, carica che spettava al partito di maggioranza e notoriamente negata da subito alla sinistra di quel partito? Dettolo con tutta la simpatia possibile, Federica Mogherini è una persona che studia ed è determinata: ma non era una Henry Kissinger che si doveva sostituire.
Comunque esistono i telefoni. Nel corso di questo ultimo mese Renzi avrebbe potuto consultarsi con Napolitano, di tanto in tanto: il presidente avrebbe saputo sin da subito che al premier interessava più la giovinezza del candidato che l’esperienza; e il premier che il presidente prediligeva il contrario. Se fosse stato indicato e confermato prima, Gentiloni o chi per lui avrebbe avuto il tempo di lavorare con Mogherini per una transizione ordinata. E’ una riflessione troppo banale? Un’idea da giornalisti che si devono riformare, come recentemente la ministra Madia ha detto della nostra categoria?
Temo che questo sia il metodo Renzi: la spettacolarizzazione della politica. Non so se lui volesse una donna, una candidata più giovane o se invece Gentiloni fosse sin dall’inizio il suo ministro. Ma sembra che tutto questo inutile attendere sia servito più per costruire una suspense cinematografica che per la funzionalità del servizio esteri. In fondo un ministro competente più di tutti gli altri candidati entrati e usciti dalla Hit Parade, era già alla Farnesina. Il vice ministro Lapo Pistelli.
Il tempo per la sua intervista quotidiana, tuttavia, Renzi lo trova sempre: La7 (Gruber), Oggi, La7 (Mentana). Mentre andiamo in macchina, si sarebbe detto prima del web, certamente ne starà facendo un’altra. I giornalisti non sono del tutto innocenti. Al suo “Giornale”, Montanelli ci insegnava che se, per esempio, Arafat veniva intervistato dal Corriere, noi Arafat non lo avremmo intervistato per almeno un paio di mesi. Era una regola giornalistica e anche di logica: il giorno dopo cosa mai avrebbe potuto dire di nuovo Arafat? Con Renzi arriviamo al punto che tutti i giorni tutti i giornali riprendono tutte le sue interviste, fingendo di ignorare che tutti i giorni pubblicano la stessa cosa. Capita spesso che chi aveva intervistato Renzi ieri, oggi pubblichi le medesime dichiarazioni attribuendole a un’altra testata.
Ma torniamo al nuovo ministro. Sul piano dell’esperienza internazionale Paolo Gentiloni ha un curriculum più debole di Pistelli, Mogherini e anche della giovane Lia Quartapelle. Ma chi l’ha detto che il ministro degli Esteri debba necessariamente essere un tecnico o un ex studente Erasmus? Giulio Terzi, un ambasciatore, è stato un ministro molto deludente. Fini e D’Alema, due politici puri, pur da posizioni politiche diverse sono stati dei buoni ministri degli Esteri. Solo Emma Bonino aveva tutte le qualità: era una donna, conosceva il mondo, il mondo conosceva lei e innegabilmente aveva esperienza politica. Ma è evidente che era fuori dal radar renziano.
Come Interni ed Economia, gli Esteri sono un dicastero molto politico. In genere ci si attende che definisca “politiche” di alto livello: anche se nel metodo berlusconiano e forse pure con Renzi, a farlo è il premier più del ministro responsabile. Gentiloni è un politico navigato e potrebbe essere anche lui un bon ministro, capace di affermarsi all’estero e di guidare la macchina della Farnesina piuttosto disorientata e umiliata dalla spending review. Ma la prima cosa che Gentiloni deve dimostrare è chi sarà il vero ministro degli Esteri fra lui e Matteo Renzi. Il rapporto fra il premier e suo ministro è il frutto di un equilibrio fra il primato del primo e l’autonomia del secondo. A parte i pochi successi della politica estera americana, Barack Obama e John Kerry sarebbero un buon esempio da imitare.