Sul sito della Brookings Institution William Galston analizza quale sarà l’effetto sulle presidenziali 2016 del nuovo impegno appena preso in Medio Oriente da Barack Obama. Prende in esame le opportunità di un neo-reganiano come il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio e quelle di Rand Paul, un altro repubblicano ma sostenitore di un’America senza impegni all’estero.
E poi naturalmente c’è Hillary che dovrebbe spopolare fra i democratici. Vinte le primarie, vedrà come butta in Medio Oriente, prima di decidere se e come affrontare su questo tema il contendente repubblicano. Giustamente Galston non è un esperto di Medio Oriente ma di Governance studies. E secondo lui anche le elezioni del 2016 si giocheranno sull’economia, non sulla politica estera.
L’America dunque è già oltre. Al di qua restano il Califfato di al Baghdadi, l’intera regione e le sue guerre civili, settarie, religiose, economiche, guerre ad alta e bassa intensità; restano Barack Obama e la sua idea di America ormai già dati per anatre zoppe, nonostante il nuovo impegno proclamato alla vigilia dell’11 settembre 2014. A una nuova battaglia così determinante – quanto a rispetto delle regole internazionali e di civiltà, Saddam Hussein sembrava un funzionario Onu in confronto all’Isis – si presenta un presidente dal potere declinante. Alla prima decisione difficile da prendere, il re Abdulla saudita, l’emiro del Qatar, Bibi Netanyahu, il palestinese Meshal e perfino al Baghdadi sospireranno: “vabbè, aspettiamo il prossimo”.
Il fatto è che il Medio Oriente ha fregato Barack Obama. Vi sembra normale che John Kerry, il segretario di Stato, sia in giro per la regione a cercare di convincere questi e quelli ad aderire a una “grosse koalition” contro l’Isis, i cui primi beneficiari sarebbero proprio loro? Possiamo parlare di deficit di autorevolezza? Come quando, poco più di un mese fa, Kerry andava di qua e di là a proporre un cessate il fuoco per Gaza, poi realizzato da altri.
Dopo il delirio tardo-imperiale di George Bush il Mediocre, Dick Cheney, Paul Wolfowitz ed altri, Obama doveva rappresentare un rinascimento della civiltà americana. Basta guerre nella regione ma anche basta mestare con la politica, spazio ai titolari del Medio Oriente. “Leading from behind”, era l’idea. A volta senza guidare affatto, nemmeno da dietro.
Prendiamo l’esempio dell’Egitto per come sono andate le cose, non per come le descrivono i teorici della cospirazione di una e dell’altra parte. Agli Stati Uniti Hosni Mubarak andava benissimo, almeno dal punto di vista geostrategico. Poi piazza Tahrir si è riempita e le manifestazioni degli egiziani hanno convinto gli Usa che il vecchio dittatore era insostenibile. Poi gli americani hanno sostenuto i Fratelli musulmani perché avevano vinto tutte le elezioni. Poi hanno criticato al Sisi ma hanno ripreso il dialogo senza mai chiamare golpe il suo golpe sanguinoso: perché almeno la metà degli egiziani lo aveva sostenuto.
Un tempo gli americani le rivolte e i golpe li organizzavano. Questa volta hanno fatto fare agli egiziani e il risultato finale è che gli islamisti li accusano di aver favorito i militari e viceversa. Mai nella storia contemporanea di questa regione un presidente aveva lasciato fare ai titolari del Medio Oriente. I veri fautori dei grandi cambiamenti di questi ultimi tre anni sono i turchi, gli iraniani, i sauditi, i signori del Qatar e degli Emirati. Americani e russi hanno dato appoggio logistico; inglesi e francesi inutilmente giocato a contare come un tempo.
E turchi, iraniani, sauditi, emiri del Golfo hanno fatto un grande caos. E’ stupido dire che Turchia, Arabia Saudita, Qatar o Emirati hanno creato e finanziato l’Isis. No, però le loro rivalità, le loro dispute su quale dovesse essere il migliore Islam politico, la loro ricchezza mal spesa hanno creato le condizioni perché nascessero mostri peggiori come alternativa a Gheddafi o Bashar Assad (i quali, anche se comparativamente ne escono meglio, restano dei mostri).
Anche adesso che l’Isis dovrebbe accomunare sciiti e sunniti, iracheni, sauditi e iraniani, tutti entrano o promettono di entrare nella grande coalizione già pensando a cosa potranno guadagnarci. Un presidente come Obama non lo troveranno più. Chi lo sostituirà porterà l’America definitivamente fuori perché tanto c’è il “big fracking”, milioni e milioni di barili di petrolio e gas scisto; o riporterà dentro le truppe, ricominciando tutto da capo in “what is called, somewhat oddly, the Middle East”, come disse una volta Winston Churchill.
Aggiungo il commento sullo stesso tema pubblicato oggi sulle pagine del Sole-24 Ore.
Non era questo che si aspettava di dire all’Islam, cinque anni dopo il grande discorso di riappacificazione all’Università al Azhar del Cairo. Forse un giorno lontano la Storia spiegherà che furono le parole del giugno 2009 ad avviare un lento e sanguinoso processo di democratizzazione del mondo arabo. Ma quello che ieri ha detto Barack Obama non è stato altro che un appello a una nuova mobilitazione, soprattutto militare.
Cosa è accaduto in quasi un mandato presidenziale e mezzo perché il Medio Oriente sia più caotico e minaccioso di prima? Il nostro senso di colpa ci costringe a pensare che gli Stati Uniti abbiano sbagliato perché privi di strategia coerente, e ci spinge ad andare più lontano nel tempo: alla destabilizzazione provocata dall’invasione americana dell’Iraq di Saddam Hussein. E ancora più indietro al colonialismo e agli accordi Sykes-Picot, un alto funzionario inglese e uno francese, che nel 1916 spartirono i resti dell’impero ottomano, creando sfere d’influenza dalle quali sarebbero nate realtà mai esistite prima: Libano, Giordania, Iraq, Palestina, Israele, regni ed emirati nel Golfo.
E’ vero. Ed è vero che solo nel 1971 gli ultimi Paesi del Golfo si sono liberati del colonialismo. Ma il tempo e le condizioni per creare stabilità, sistemi politici, sociali ed economici, ci sono stati. Quello che è mancato fra i due discorsi di Obama non è tanto l’America quanto il mondo arabo-iraniano. Non c’è nella regione un solo modello statuale moderno, efficiente, capace di essere un esempio come negli anni ’50 il Giappone fu per l’Estremo Oriente.
Il fallimento è ancora più devastante rilevando che il problema non è una crescita mai avvenuta ma il dissesto di uno sviluppo che appariva più promettente che altrove. Nel 1965 il Pil procapite egiziano era di 406 dollari, il cinese di 110; oggi il primo è di 1.566, il secondo di 3.583. Quelli di Iran e Corea del Sud erano uguali e oggi sono 24mila dollari a 3mila. La regione importa il 4% del mercato globale, meno che nel 1983. La base della ricchezza europea sono le esportazioni all’interno nella regione: due terzi del totale del nostro export. Gli scambi all’interno del Medio Oriente non superano il 16%.
Gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite non sono meno deprimenti: la regione ha il più basso tasso di scolarizzazione femminile e di libri pubblicati, per citare due esempi. In un anno la Spagna pubblica più titoli dell’intero Medio Oriente vessato dalle censure dei nuovi regimi come ai tempi dei vecchi. Anziché promuovere lo spirito d’impresa, i governi della regione controllano l’economia, cercando consensi immediati e non investimenti sul futuro. Nel 2007 lo Stato egiziano dava lavoro a 6 milioni di cittadini: con polizia e forze armate erano più di 8. Anche il ricco Qatar che punta sul futuro ha aumentato del 60% i salari del pubblico impiego: del 120 quelli dei militari. E in Arabia Saudita recentemente re Abdullah ha investito 130 miliardi in stipendi, infrastrutture e nuovi lavori nel settore pubblico.
Quello che manca alla regione è l’inclusività economica, sociale e politica: mancava prima e in maniera ancora più drammatica dopo le rivoluzioni. Mubarak governava senza i Fratelli musulmani, i Fratelli governavano da soli e al Sisi governa di nuovo senza la fratellanza. Il risultato finale è un Egitto polarizzato, incapace di fare riforme. C’è stato un tempo in cui il mosaico religioso ed etnico del Levante era la ragione del suo progresso. Oggi l’Isis ha trasformato l’esclusività in un valore assoluto e distruttivo.