Come in un’Iliade minore, nella quale gli eroi e i marrani, le vittime e i carnefici perdono il contatto con la storia reale per entrare nel mito, anche il più antico dei conflitti dell’evo contemporaneo ha già prodotto le sue leggende. Che quella fra israeliani e palestinesi sia una pace impossibile, è la prima e più importante.
L’accordo, invece, c’è già. Nei dettagli. Gerusalemme, frontiere, sicurezza d’Israele e Stato palestinese, diritto al ritorno dei profughi palestinesi e colonie ebraiche, acqua, economia. Dalla trattativa segreta di Oslo sfociata nella firma a Washington nel 1993, in poi, le parti in causa con il sostegno degli sponsor internazionali, hanno risolto tutto. Israeliani e palestinesi sanno cosa potranno guadagnare e a cosa dovranno rinunciare. Conoscono cioè i dettagli del compromesso necessario per arrivare alla pace. Si tratta solo di ritrovare leaders capaci di accettarlo e farlo digerire alle loro opinioni pubbliche tutt’altro che spossate dal conflitto, come dimostrano gli eventi di queste ultime settimane. Non è poco ma qui non c’è una pace da inventare.
La seconda leggenda del conflitto è l’inutile ruolo dell’Europa. O, come dice Nathan Brown, mediorientalista della Carnegie di Washington, “il conflitto sembra coinvolgere molti euro ma molto poca Europa”. Senza il nostro aiuto economico l’Autorità Palestinese sarebbe già fallita e la partnership Ue è fondamentale al successo economico d’Israele. Ma come peso politico non contiamo nulla: il monopolio della diplomazia è americano.
E’ evidentemente vero ma ciò non toglie che l’Europa sia stata la coraggiosa e geniale avanguardia del negoziato. Molte delle cose considerate inattuabili quando la Ue le aveva proposte, oggi sono elementi scontati nella lunga marcia per la soluzione del conflitto.
Il nostro esordio è il Documento Schumann del 1971. Allora ci chiamavamo ancora Comunità. Proponemmo la creazione di una zona demilitarizzata, il ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967 e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Non fu facile: l’Europa era il continente che aveva generato e coltivato l’antisemitismo e nel quale pochi anni prima era stato perpetrato l’Olocausto.
Durante l’embargo petrolifero arabo seguito alla guerra del ’73, la Comuntà condannò formalmente Israele per aver acquisito con la forza territori. E nel 1977 al vertice dei capi di stato a Londra, fu avanzata per la prima volta l’idea di una “homeland” palestinese come 61 anni prima gli inglesi avevano fatto a favore di un “focolare” ebraico.
La svolta è la dichiarazione di Venezia del 1980: diritto palestinese all’autodeterminazione, no alle colonie ebraiche, nessun cambiamento unilaterale dello status di Gerusalemme. Infine gli europei proposero il riconoscimento dell’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Oggi è scontato anche per Avigdor Lieberman ma allora Israele e Stati Uniti boicottavano l’Olp. Quello che allora fu condannato come gesto radicale, 13 anni dopo sarebbe diventata parte essenziale degli accordi di Oslo.
Come il concetto di “Stato palestinese”: lo espresse il vertice Ue di Berlino nel 1999 e nel 2002 finalmente anche George Bush riconobbe questo diritto, annunciando la sua visione dei “Due Stati uno accanto all’altro in pace e sicurezza”.
Agli europei con scarso orgoglio d’appartenenza, agli autoflagellati del “tanto l’Europa non conta nulla”, sono felice di ricordare che la Dichiarazione di Siviglia del 2002 conteneva dettagli specifici di uno “status finale” della pace, ora parte della trattativa americana; e che la presidenza danese di allora fu la prima a parlare di una “road map”. Sono queste decisioni europee che hanno permesso la nascita del Quartetto (Usa Ue, Onu, Russia) del quale gli americani sono diventati gli unici titolari politici.
La capacità europea di guardare sempre al domani, infine, è stata implicitamente riconosciuta da Barack Obama quando ha stabilito che il punto di partenza (non necessariamente d’arrivo) del negoziato territoriale dovessero essere le frontiere del 1967. Un atto di giustizia diplomatica che l’Europa aveva individuato un trentennio prima.
Per rafforzare questa unità di misura del negoziato, nel luglio dell’anno scorso la Ue aveva deciso che istituzioni e produttori di beni israeliani che operano dentro i Territori non potranno accedere agli importanti finanziamenti europei. Le cosi dette “Linee guida”. Con grande pragmatismo l’Unione ha deciso di congelarle per non ostacolare il negoziato avviato da John Kerry, il segretario di Stato americano.
Apparentemente fallita la trattativa, l’Europa ha deciso di rafforzare le “Linee guida” che probabilmente entreranno in vigore entro quest’anno. Non è un boicottaggio a Israele che per la Ue e ogni singolo Paese dell’Unione resta un partner attivo ed essenziale. Nessun documento europeo ha mai usato la definizione di “Governo di Tel Aviv”, riconoscendo la piena legittimità israeliana di considerare Gerusalemme come sua capitale. Se le nostre ambasciate sono a Tel Aviv è solo in segno di protesta contro l’occupazione di Gerusalemme Est, araba. E’ così per quasi tutti i Paesi del mondo, Usa compresi.