L’Egitto non è pronto per la democrazia. Un’affermazione così rivela sempre un senso di arroganza culturale: noi possiamo, voi non ne avete i mezzi. Ma si può essere smentiti, osservando gli ultimi avvenimenti? Come fosse incapace di essere governato senza leggi speciali, il futuro del Paese è ingabbiato fra due alternative assolute: il generale al Sisi e il suo militarismo o l’Islam radicale.
Ripercorriamo le occasioni perdute della storia più recente. Inebriati dal loro successo, i giovani della rivolta di tre anni fa si sono accampati in piazza Tahrir a tempo indeterminato, pretendendo di diventare i sacerdoti della rivoluzione. Anziché trasformarsi in forza politica, facendo un passo avanti, sono rimasti fermi all’illusione di una rivoluzione senza fine. Non avevano studiato la Storia abbastanza per scoprire che, delle rivoluzioni, i vincitori non sono quasi mai quelli che le iniziano.
Mentre loro tenevano inutilmente la piazza, i Fratelli musulmani e i militari si sono spartiti equamente il consenso della maggioranza degli egiziani. I primi avevano uno slogan millenaristico: “L’Islam è la soluzione”; i secondi aspiravano all’azzeramento della rivoluzione di piazza Tahrir, al ritorno all’ordine.
La prima puntata l’ha vinta la fratellanza, conquistando la maggioranza in tutte le elezioni: amministrative, politiche, presidenziali, ballottaggi, referendum. Incapaci di maneggiare il mezzo con modernità, i Fratelli musulmani hanno dato della democrazia l’interpretazione più evidente ma anche più rudimentale: governa chi vince. Venendo da un principio assoluto come la fede, hanno volutamente ignorato che l’Egitto aveva bisogno di inclusione politica e condivisione del potere.
La fratellanza ha pagato a caro prezzo la sua ignoranza democratica. E’ stata spazzata via con brutalità – 1.400 morti, migliaia di arresti, messa al bando – da un colpo di stato militare che tuttavia era sostenuto da milioni di egiziani.
Che tutti quei milioni oggi siano ancora così convinti del ritorno dei militari sulla scena politica, è opinabile. Sottoposta al referendum, per la nuova costituzione è andato a votare solo il 5% più di quanti lo avevano fatto l’anno prima per la precedente costituzione dei Fratelli musulmani. Eliminato l’Islam politico dalla scena legale, è apparso con altri strumenti e obiettivi quello radicale.
Non si può giudicare il generale Abdel Fattah al Sisi, l’uomo oggi più potente d’Egitto e quasi certamente candidato presidenziale a marzo, senza tenere conto di questi precedenti. Come scrive uno dei pochi giornali de Cairo ancora abbastanza libero, ”al Sisi è un candidato di necessità nazionale più che di desiderio pubblico”.
Qualche tempo fa al Sisi aveva dichiarato di aver sognato Abdel Nasser in divisa che lo esortava a candidarsi. E alla folla che gli chiedeva di ascoltare la premonizione, aveva risposto che accetterà di farlo solo se sarà il popolo egiziano a chiederglielo. La propaganda di giornali e televisioni, e forse qualcuno degli attentati erroneamente attribuiti agli islamici, stanno preparando il terreno della sua discesa in campo. Se al Sisi lo farà, sarà difficile trovare un concorrente che impedisca al voto di diventare un plebiscito per caudilli: ai Fratelli musulmani sarà vietato partecipare, fra i laici nessuno rischierà di opporsi al generale.
Ma, ancora, tutto questo va giudicato tenendo conto della realtà egiziana, della crisi economica cristallizzata da quella politica, del terrorismo islamico: se qualche attentato è forse frutto di una strategia della tensione, nella grande maggioranza sono reali e indicano il ricrescere del radicalismo religioso. “Voi occidentali non capite la loro pericolosità: devo farlo”, diceva Anwar Sadat agli americani che gli chiedevano di allentare la repressione sugli islamisti. Sadat fu poco ascoltato ed è noto come finì.
Quando al Sisi annuncerà la sua candidatura – ha già anticipato a marzo le presidenziali che dovevano tenersi a giugno – la retorica attorno a lui sfiorerà il ridicolo. Ma bisognerà tenere conto del contesto. Forse è giusto che sia ancora un generale a governare l’Egitto. Se lo farà svestendo la divisa, se ricorderà che tre anni fa in piazza Tahrir qualcosa è successo, se sarà inclusivo evitando di ripetere l’errore dei Fratelli musulmani, al Sisi farà parte della storia dell’Egitto e del Medio Oriente. Se invece rinuncerà a imitare de Gaulle, preferendo l’esempio di Saddam Hussein, neanche lui durerà a lungo.