Sun Tzu diceva che in guerra “devi sempre costruire un ponte d’oro al tuo nemico perché si possa ritirare”. Al generale, stratega e filosofo cinese della dinastia Zhou, mezzo millennio prima di Cristo, non importava solo vincere. Voleva anche creare le condizioni per la pace, evitando di umiliare l’avversario.
Non è esattamente quello che cercano in molti nel negoziato per impedire che l’Iran acquisisca l’arma nucleare. Qualche giorno fa, riporta il Financial Times, Bibi Netanyahu sosteneva che l’accordo dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania: più, in realtà, anche Ue e Onu) con l’Iran, “è male, è pericoloso e minaccia la nostra sicurezza”. La settimana scorsa John Kerry aveva invitato il premier israeliano ad aspettare almeno che un accordo sia individuato, prima di criticarlo. Ma Bibi da’ per scontato che qualsiasi cosa verrà fuori da Ginevra, sarà un cattivo accordo.
Per questo non resta con le mani in mano ad aspettarlo ma lavora alacremente perché non se ne faccia nulla. Ai membri delle Federazioni ebraiche del Nord America, in assemblea a Gerusalemme, Netanyahu ha chiesto: “E’ questo l’accordo che volete?”.
“Nooo”, ha risposto l’assemblea delle organizzazioni ebraiche americane, ammaliate dal proverbiale catastrofismo di Bibi.
“Bene, fate qualcosa”, ha concluso.
Un ragionamento da antisemita, se è vero che chi solo sospetta che la lobby ebraica americana abbia il potere di condizionare le politiche della Casa Bianca, è un antisemita. Il Congresso ha già preparato una legge che intende rafforzare le già forti ed efficaci sanzioni economiche contro l’Iran. Farlo in mezzo a un negoziato promettente è come uccidere il negoziato.
Senza le pressioni israeliane, saudite e degli Emirati arabi probabilmente non si sarebbe mai arrivati a mettere insieme quelle penalità che hanno messo in ginocchio l’economia iraniana, e contribuito a spingere gli iraniani a votare leader più moderati. Il problema ora è capire a cosa debbano servire le sanzioni: se avevano lo scopo di costruire il ponte d’oro di Sun Tzu o di essere un fine anziché un mezzo. Si vuole cioè solo impedire che l’Iran diventi una pericolosa potenza militare nucleare; oppure, come sospetta Thomas Friedman sul New York Times, l’obiettivo è “bombardare le installazioni nucleari dell’Iran, mantenendolo uno Stato paria, isolato e debole”? Ci sono i legittimi interessi di Israele e dell’Arabia Saudita. Ma anche quelli degli americani, ricorda ancora Friedman: “Il nostro interesse non è solo ridurre la capacità nucleare iraniana ma porre fine a 34 anni di guerra fredda Iran-Usa che hanno danneggiato i nostri interessi e quelli dei nostri amici israeliani e arabi”.
Israele ammette il diritto iraniano di generare energia nucleare per scopi civili ma nega la possibilità che arricchisca il suo uranio: non al 3,5%, nemmeno all’1 (per fare la bomba la percentuale critica è il 20, quella necessaria il 90%). In quanto sunniti, sauditi ed Emirati probabilmente non sono disposti a riconoscere nulla agli sciiti iraniani.
Il divieto di arricchire uranio sarebbe l’antidoto più facile contro il nucleare militare. Ma anni di negoziato, anche gli ultimi due incontri con il nuovo e più moderato governo di Rohani, dimostrano che per “principio” gli iraniani non vogliono rinunciarvi. E’ un dato di fatto, così sono le cose concrete sul campo. Rifiutarsi di ammetterlo, negoziando sull’impossibile e non sul verosimile, è come negare al nemico una via d’uscita: niente ponti d’oro e nemmeno di corda.
Restando nel negoziato possibile, in questi anni il fronte del 5+1 ha mantenuto una coesione rara. Imponendo una trattativa sull’inattuabile, come pretendono israeliani e sauditi, russi e cinesi potrebbero decidere di non avere più convenienza: ponendo fine alla solidarietà del fronte e facendo crollare la struttura delle sanzioni. Oggi è l’Iran ad essere in difficoltà ma nulla è immutabile.