Sono appena stato a Tel Aviv per un reportage sulle startup israeliane, che uscirà sull’edizione cartacea del Sole-24 Ore. Dopo una full immersion fra giovani geni e investitori senza paura, torno con una convinzione e un dubbio.
La prima, la certezza, è di essere vecchio e stupido. Troppa gioventù, troppa inventiva per essere sopportata da un uomo del XX secolo. Il dilemma è la distanza fra questo mondo californiano nel quale gli israeliani della costa vivono la stessa qualità della vita degli americani della West Coast, e il mondo del conflitto tribal-religioso a una trentina di chilometri in linea d’aria. Una società civile colta che si cura dell’ambiente, moltiplica le piste ciclabili, ricicla, vive di sport, sushi bar, fusion e vini di eccellente qualità, come può accettare che il Paese al quale appartiene occupi da 46 anni una terra degli altri?
I palestinesi praticamente non esistono (in verità per loro non esistono nemmeno i coloni israeliani). In generale hanno votato partiti di sinistra come il Labour o laici come Yesh Atid i cui programmi non menzionavano il processo di pace. I miei incontri a Tel Aviv non avevano questo come tema: raramente mi ci sono soffermato, parlavamo di startup. E raramente i miei interlocutori lo hanno ricordato. Quando è capitato hanno mostrato noia e fastidio.
Eppure quasi tutti questi giovani geni dai 40 ai 25 anni hanno fatto il militare nei reparti speciali: i paracadutisti, le Sayeret Matkal dell’esercito, le Shayeret 13 della marina, i piloti da caccia. E l’Unità 8.200, gli Shmoneh Matayim: i super-geni che passano i tre anni di servizio di leva a inventare cose per le forze armate, prima di continuare a farlo per se stessi nel libero mercato.
Dunque un senso civile, una percezione del
conflitto ce l’hanno piuttosto sviluppata. Il problema è che non hanno fiducia
in una pace né una minima fiducia che i palestinesi la vogliano. Son convinti
di aver già fatto la migliore offerta del mondo e che gli altri l’abbiano
rifiutata. Anche i palestinesi della Cisgiordania sono certi di aver offerto
agli israeliani il meglio possibile e che gli altri non ascoltino perché non
vogliono alcuno Stato palestinese. Hanno ragione entrambi. Ed entrambi torto.
Se non fosse così non sarebbe il conflitto più insolubile della storia
contemporanea.
Temo che israeliani e palestinesi non siano
ancora arrivati a non poterne più del conflitto. Preferiscono che le cose
restino come sono per evitare le dolorose rinunce e la fine di alcuni miti
nazionali che una pace comporta. Anche se non detto così apertamente, gli uni e
gli altri coltivano la speranza che l’avversario scompaia. Per questo la
maggioranza più o meno silenziosa, teoricamente favorevole a una soluzione, è
costantemente sopraffatta dalle estreme dell’una e dell’altra parte. Non nasce
una vera leadership che si assuma l’onere e guidi i due popoli versi un
compromesso, perché i due popoli non vogliono che nasca.
Mentre in Cisgiordania continua la guerra a
bassa intensità fra i coloni israeliani occupanti e i contadini palestinesi
occupati, la diplomazia si muove: passi incerti ma si muove. Come tutti i
neofiti del conflitto, il nuovo segretario di Stato John Kerry vuole fare molto
senza essere seguito con lo stesso entusiasmo dall’apparato del dipartimento,
dalla Casa Bianca, da Capitol Hill. Pensa di rimettere in moto il negoziato.
Così i membri della Lega Araba che offrono a Israele una revisione più
flessibile della proposta già avanzata nel 2002 a Beirut: pieno riconoscimento
in cambio del pieno ritiro dai territori arabi occupati. Ora le modalità del
ritiro si possono ridiscutere. Il processo di pace, dunque, non è del tutto
cadaverico: non è morto e neppure vivo.
Vive in questa dimensione a cavallo
dell’aldilà perché latitano i protagonisti. Israele aveva ignorato la proposta
del 2002 e ignora quella del 2013. Nonostante sia la Lega dei Paesi arabi
all’unanimità ad avanzarla, preferisce continuare a credere di essere
circondato solo da nemici. Altrimenti come farebbero i geni delle startup a
dire di non avere interlocutori di pace fra gli arabi?
I palestinesi, incapaci di ricostituire una
decente unità nazionale tra Fatah e Hamas, si sono liberati di Salam Fayyad: il
primo ministro che aveva riformato e moralizzato il sistema finanziario
palestinese, creato le strutture di uno Stato moderno pronto a camminare sulle
sue gambe, garantito la sicurezza e l’ordine nelle strade palestinesi. Ma
Fayyad è un indipendente. Il vecchio Fatah figlio di Arafat, un dinosauro molto
simile al Pd italiano, rivoleva il suo potere. Tuttavia le ambizioni e i
personalismi del partito continuano a impedire la nomina di un nuovo premier.
L’idea della cariatide Abu Mazen è di creare un gabinetto di tecnici esterni a
Fatah e Hamas, raggiungere attraverso questo esecutivo un compromesso con gli
islamisti di Gaza e organizzare nuove elezioni fra sei mesi- un anno. Non ci
riuscirà e l’Autorità palestinese continuerà a non avere un primo ministro. O
meglio, è sempre Fayyad.
Quando i due protagonisti – coloro che hanno
tutto da perdere o tutto da guadagnare – sono i meno interessati alla loro
pace, cosa possono fare gli altri?