Secondo dibattito presidenziale, vittoria di Barack Obama: uno a uno, per il momento, con i sondaggi sempre “too close to call”. Una corsa presidenziale che sembrava una passeggiata è diventata una battaglia all’ultimo voto. Il primo martedì di novembre (il 6) Mitt Romney rischia ancora di vincere.
Perché mi scaldo così tanto? Perché noi italiani, noi europei freschi di Nobel dovremmo sostenere Obama e non Romney? Gli Stati Uniti non sono il nostro Paese, perché dovremmo preferire il partito democratico a quello repubblicano? Non sono affari nostri. Possiamo avere delle opinioni sul sistema fiscale e sanitario, sui programmi energetici e finanziari: quelli proposti da Obama e da Romney sono ideologicamente opposti. Ma, ancora, quale progetto di società americana vinca, per noi cambia poco.
Incerottati e con risorse più limitate, tuttavia gli Stati Uniti sono ancora la più importante potenza militare, politica ed economica mondiale. E questo ci riguarda da vicino. Quello che decide il presidente americano ha conseguenze dirette sulla stabilità di tante singole regioni e su quella globale. Se Mitt Romney dice che gli americani più ricchi devono pagare meno tasse, peggio per gli altri americani. Ma se Romney afferma che la Russia è il nemico strategico, la Cina quello commerciale e in Medio Oriente le politiche di Obama devono essere stravolte in chiave più muscolosa, allora il problema è anche nostro.
Quello che un candidato dice in campagna
elettorale alla fine è sempre un po’ diverso da quello che poi farà da
presidente; nella politica estera americana c’è sempre stata una continuità fra
amministrazioni democratiche e repubblicane. Di più: storicamente i
repubblicani sono sempre stati più realisti e internazionalisti dei democratici.
Jimmy Carter era più pacifista di Ronald Reagan ma entrambi erano
anticomunisti. Questi assunti che gli esperti amano ripetere, non sono più
veri. Dall’11 Settembre non è più così.
George Bush padre e il suo segretario di
Stato James Baker, circondati dalla migliore aristocrazia intellettuale
repubblicana, avevano acompagnato i sovietici nella loro ineluttabile
disgregazione; governato la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione
tedesca, evitando un’esplosione europea; liberato il Kuwait senza invadere
l’Iraq, mettendo insieme una coalizione di Stati mai vista prima; costretto
Israele a iniziare il processo di pace con i palestinesi.
George Bush figlio non ha solo rappresentato
una discontinuità radicale dalla presidenza democratica di Bill Clinton: ha
fatto esattamente l‘opposto di ciò che avevano fatto suo padre e l’intero
partito repubblicano. Ha invaso l’Iraq, vanificando la vittoria in Afghanstan e
agevolando l’espansionismo iraniano che oggi è il grande problema del Medio
Oriente; nella lotta al terrorismo ha danneggiato l’immagine della giustizia
americana sostituendola con una giustizia sommaria da far West; ha incrinato il
sistema americano di alleanze, fondato sulla partecipazione, trasformandolo in
un medievale “con noi o contro di noi”; ha dato vita a un neo-imperialismo
distruttivo per l’America e i suoi amici.
Dopo una compagna radicale nelle primarie
repubblicane, ora Mitt Romney cerca di vendere l’immagine di un partito
moderato. Lo fa per prendere voti al centro ma quel partito repubblicano non esiste
più. Se il 6 di novembre vince lui, saranno gli stessi neocon di George Bush figlio
a definire l’agenda internazionale dell’amministrazione repubblicana. Dieci
anni fa la Cia non aveva trovato prove di un legame fra Osama bin Laden e
Saddam Hussein che giustificasse l’invasione dell’Iraq. “Le troveremo”, rispose
Paul Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, il vero teorico del nuovo
imperialismo americano. Saranno ancora quelli come il geno del male Wolfowitz a
condizionare Romney.
Il mondo non è molto migliorato. “Paura, auto
interesse e onore”, come Tucidide descriveva le motivazioni basilari che
determinavano il comportamento degli uomini e degli imperi, sono ancora istinti
essenziali delle nazioni moderne. Per questo è meglio affrontare il mondo con
un presidente come Barack Obama.