C’è un nome quasi mai pronunciato nelle Primavere. A volte è stato gridato con disprezzo, fino ad ora in casi sorprendentemente sporadici. Non era una priorità per le folle in cerca delle loro libertà. Tuttavia delle Primavere arabe è un protagonista silenzioso: Israele.
Forse dalle rivolte nascerà qualcosa di buono e di nuovo. Ma anche il più moderato, il più vicino all’Occidente dei governi che hanno già preso o conquisteranno il potere, sarà diverso da quelli che lo hanno preceduto. Diverso nell’orgoglio, nell’indipendenza nazionale e religiosa; meno incline a farsi guidare dai nostri consigli e ancor meno a temere le nostre minacce; più desideroso di mutare alcune vecchie coordinate della geopolitica regionale.
Una di queste coordinate storiche è Israele. Anche se sollecitati a parlarne, le nuove classi dirigenti preferiscono evitare l’argomento. Effettivamente non è una priorità ma sanno che è meglio non parlarne: sarebbe come svegliare un vulcano perché le opinioni pubbliche nella migliore delle ipotesi non vogliono avere a che fare con Israele, nella peggiore lo detestano. Mohamed Morsi sa che il presidente dell’Egitto non può che confermare i trattati di pace del 1979: il caso contrario sarebbe un terremoto regionale. Ma lo fa discretamente, dicendolo a porte chiuse ai dignitari che riceve, come il ministro degli Esteri Terzi in visita al Cairo. Ancora non c’è stata una conferma urbi et orbi. Se la facesse, risveglierebbe il vulcano e non c’è ragione di farlo. Ora.
Come non accadeva dalla guerra del Kippur, 1973, la solitudine di Israele nella regione è totale. Se Hamas decidesse di provocare, buttando razzi sul Negev, Israele non potrebbe più fare una guerra totale come “Piombo fuso”, nel 2008. Il mondo arabo, liberato, non starebbe più a guardare solo al-Jazeera e invocare la punizione di Dio. I loro governi non potrebbero più tacere.
Nemmeno se Israele decidesse di bombardare i siti nucleari iraniani – come ardentemente desiderano Bibi Netanyahu e il suo ministro della Difesa Ehud Barak – le cose resterebbero come prima. Silenziosamente, i governi arabo-sunniti gioirebbero per il colpo ai persiani sciiti. Ma la reazione pubblica sarebbe diversa e non occorrerebbe l’intervento degli estremisti per essere rivolta contro Israele.
Di questa solitudine Israele è tuttavia il
principale responsabile. Almeno lo è questo governo e il suo primo ministro che
tuttavia riscuotono solidi consensi, secondo i sondaggi. Delle Primavere Bibi
Netanyahu ha sempre amplificato gli evidenti pericoli e mai le altrettanto
evidenti opportunità. Quello che accade nei Paesi arabi è affrontato con la
lente della sicurezza, non della politica. E’ un atteggiamento passivo.
Anche al netto dello scarso realismo
palestinese, Israele avrebbe potuto avanzare significativamente nel processo di
pace. Gli interlocutori moderati come Abu Mazen e Salam Fayyad c’erano. Non è
stato fatto un passo anche in questo caso “per ragioni di sicurezza”, lasciando
al nuovo vulcano un facile motivo per esplodere alla prima occasione.
Se poi in America rivincerà Barack Obama,
Israele sarà ancora più isolato. Le interferenze di Netanyahu nella campagna
elettorale sono brutali e disorientano anche la lobby ebraica americana, pure
abituata a difendere Israele chiunque lo governi. Pretendendo da Obama un
impegno a partecipare al bombardamento dell’Iran o a benedire l’azione
unilaterale israeliana, Netanyahu vuole spingere di nuovo l’America in un
impegno diretto e militante in Medio Oriente. E’ esattamente quello che gli
americani non vogliono più: troppe guerre inutili nella regione, troppo incerto
il suo futuro, troppo grande il deficit di bilancio a casa. Come scrive Ian
Bremmer su Herald Tribune, “le ultime ondate di antiamericanismo attraverso il
mondo islamico hanno solo reso più profonda questa riluttanza”.
La solitudine di Israele non è mai una cosa
buona: in passato ha provocato reazioni radicali. Sarebbe sbagliato ignorare le
sue preoccupazioni che sono giustificate: i pericoli ci sono. Ad essere sbagliato
è il modo col quale Bibi Netanyahu convince gli israeliani ad avere paura: pura
retorica, Olocausto permanente. Non è la prima volta che ne fa uso. Con quella,
quasi vent’anni fa aveva moralmente armato la mano dell’assassino di Yitzhak
Rabin.
In un momento di tensione come questo e
sotto la grancassa della propaganda militarista, gli israeliani cercano di
individuare amici e nemici. E di confondere a volte gli uni con gli altri. Da
tempo mi sono rassegnato ad essere definito da alcuni come “anti israeliano”,
anche se sono certo di non esserlo.
Dopo aver insultato il 47% degli americani,
una banda di parassiti, nel famoso discorso a porte chiuse
Mitt
Romney aveva detto che “i palestinesi non vogliono comunque la pace”, che sono
solo “impegnati nella distruzione d’Israele”. Romney aveva già promesso il suo
impegno da futuro presidente di bombardare l’Iran, trasferire a Gerusalemme
l’ambasciata americana, cancellare gli aiuti all’Egitto, picchiare duro sui
musulmani e tante altre promesse fondamentali: quelle che fa chi non conosce le
cose di cui parla. Romney non è un amico d’Israele, è solo un pericoloso
incompetente. Il giorno in cui gli arabi d’America diventassero più influenti
degli ebrei, la gente come lui passerebbe dall’altra parte della barricata per
qualche voto in più.