“La Russia ha una certa plasticità che altri Paesi non hanno”, diceva qualche tempo fa Dmitri Trenin. “E’ Est. Ma è l’Est dell’Ovest”. La definizione è un buon punto di partenza per tentare di capire chi siano Vladimir Putin e i russi che lo sostengono, cioè la maggioranza del Paese: “Autoritarismo con il consenso dei governati”, è la formula russa.
Direttore del centro moscovita del Carnegie Endowment, Trenin, è un ex militare russo che ha assimilato molto dell’America fino a dirigere uno dei suoi think-tank più importanti: è una specie di Ovest dell’Est. La Russia, dice Trenin, “ha bisogno di definire un ruolo che le sia adatto, attraverso il quale possa contribuire al benessere dell’umanità. Ma prima ha bisogno di lavorare su se stessa”. In sostanza ha bisogno di capire che “non occorre cambiare il mondo secondo le sue idee”.
La vocazione autoritaria di Vladimir Vladimirovich Putin è evidente: non è nato democratico né lo è diventato lavorando accanto ad Anatoly Sobchak, ex sindaco di Leningrado e grande riformatore. Putin ha assimilato di più i canoni del lavoro precedente: quello di uomo del Kgb forse mai dismesso del tutto. Ma in quell’essere Est dell’Ovest, una condizione che la Russia cerca di chiarire a se stessa dai tempi di Pietro il Grande, l’Occidente ha un ruolo fondamentale per determinare la prevalenza di un punto cardinale su un altro.
Oggi i russi proteggono un regime palesemente sanguinario come quello siriano, difendono ambiguamente il nucleare iraniano che alla fine anche loro temono, giustificano le follie incontrollabili dei coreani del Nord. Sembra quasi che più uno è cattivo, più ha la certezza di contare sull’aiuto russo. Per spiegare questo mistero non basta la geopolitica: fare l’opposto degli americani, ovunque, per sentirsi superpotenza. Né solo gli affari che i russi fanno con tutti i regimi borderline. E’ piuttosto la psicologia fragile di chi è l’Est dell’Ovest, e dunque anche l’Ovest dell’Est: potendo essere molte cose alla fine non ne è nessuna, pienamente. Insicura, diffidente, suscettibile, potenzialmente aggressiva. E’ difficile chiamare posto di frontiera un Paese con 11 fusi orari: ma la Russia è una frontiera.
Il nostro comportamento determina molto le sue scelte. Prendiamo lo scudo spaziale, il nuovo sistema missilistico che Stati Uniti e Nato vogliono mettere in Europa, dalla Polonia, alla Turchia e al Portogallo per difenderla da un’eventuale aggressione iraniana e nord-coreana: cioè da missili balistici, di gittata intercontinentale, che Iran e Corea del Nord non hanno. E se li avessero, non li punterebbero sull’Europa. L’unica nella zona ad averne, e tanti, è la Russia. Sembra dunque troppo evidente che il vero scopo di questa difesa missilistica anti-missilistica sia lei.
Nel 2014, quando si ritirerà dall’Afghanistan, la Nato resterà senza una missione. Sopravvissuta alla Guerra fredda, all’Alleanza atlantica serve una nuova ragion d’essere. Il partito dei falchi, molto attivo all’ultimo vertice Nato di Chicago, propone di tornare al campo di battaglia naturale dell’Alleanza (l’Europa) e al vecchio caro nemico (l’ex Unione Sovietica). Non è la visione di Barack Obama. Ma non è più così certo che fra sei mesi a Washington governerà ancora lui. Quando il repubblicano Mitt Romney parla di scenari internazionali sembra un dottor Stranamore più irresponsabile di quello di Stanley Kubrick. E’ vero che in campagna elettorale si esagera ma perché i russi dovrebbero fidarsi di un candidato che parla come ai tempi della Guerra fredda?
Se ci fosse più trasparenza sulle intenzioni dello scudo spaziale, la Russia sarebbe meno ostinata sulla Siria e sul nucleare iraniano. Putin non diventerebbe un democratico: non lo sarà mai. Ma tornerebbe ad essere un socio più credibile nella necessaria riorganizzazione del mondo.