Ecco trovata la formula che salverà tutti o quasi. Salverà gli americani che hanno perso la capacità e il denaro per guidare il mondo, governandone le crisi; gli europei e le Nazioni Unite prive di idee e volontà politica per risolvere il caso siriano; la Russia lacerata fra l’imbarazzo di stare col carnefice e la pretesa di difendere una delle poche zone d’influenza rimaste; gli arabi che in Siria vedono sfiorire e dissanguarsi la loro famosa Primavera. Salverà forse anche la coscienza di tutti, impotenti davanti al massacro quotidiano.
I russi l’hanno chiamata “Yemenskii variant”. La formula è così concepita: si prende la Siria e si fa finta che sia lo Yemen. Il resto verrà da solo. Anche quel Paese passava da un massacro a un altro con Ali Abdullah Saleh che rifiutava di farsi da parte. Alla fine una cannonata ben assestata sul palazzo presidenziale e la comunità internazionale – in quel caso l’Arabia Saudita – lo hanno convinto a cedere il potere. Appena è accaduto, ci sono state nuove elezioni e la pace è tornata sullo Yemen. A parte, naturalmente, due dettagli marginali: le elezioni democratiche sono state a candidato unico, l’ex vicepresidente Abdu Rabbu Mansour Hadi; e le infiltrazioni di al-Qaida riescono ancora a fare qualche massacro.
A dispetto del nome, “Yemenskii variant” è stata ideata dagli americani e sembra che i russi ne siano entusiasti. L’applicazione siriana della formula yemenita è la sostituzione di Bashar Assad con qualcun altro del suo regime. Protetto, il presidente va in esilio in un Paese a sua scelta; qualcuno prende il suo posto, regime e opposizione gioiscono e magari incomincia una trattativa. Intanto si risolvono i due problemi più urgenti. Il primo è fermare i massacri e raggiungere un cessate il fuoco vero. Il secondo è dirimere o congelare il contrasto fra l’aspirazione russa di mantenere la sua influenza sulla Siria, affari compresi; e l’aspirazione Usa di far cadere un tassello fondamentale del fronte antiamericano dall’Iran a Hezbollah in Libano.
Il limite di “Yemenskii variant” è pensare che il problema sia Bashar Assad e non l’intero regime. A Sana ha funzionato perché l’opposizione a Saleh era una parte del sistema: ad eccezione degli studenti scesi in piazza, gli altri, quelli che contavano, erano capi tribù e generali che per calcolo avevano pensato si dovesse sostituire il presidente e la sua cricca. In Siria l’opposizione è divisa, inefficace; se non infiltrati da elementi qaidisti, quelli che combattono all’interno del Paese sono controllata dagli islamisti. Ma è un’opposizione genuina: non ci sono generali, battaglioni nè nomenclature fuggite dal vecchio regime. Anche se al momento ha scarse possibilità di vittoria, è difficile che si accontenti di Bashar.
In attesa che americani e russi si mettano d’accordo e che “Yemenskii variant” produca qualche effetto, il regime prosegue nei suoi massacri e nei suoi disegni. Giorno dopo giorno, anche il Libano viene volutamente risucchiato nella crisi e prima o poi diventerà una parte indistinta del grande campo di battaglia siriano. Tutto questo perché l’acqua della disperazione è arrivata all’altezza dello stomaco del regime di Damasco e bisogna trovare diversivi che distraggano la comunità internazionale. Quando l’acqua salirà alla gola proveranno a coinvolgere anche Israele. A quel punto la sopravvivenza di Bashar o del suo successore sarà solo uno dei problemi.