Sembra sia incominciato il conto alla rovescia della Grande Guerra del Golfo: da un momento all’altro, fra marzo e aprile, al più tardi entro la fine dell’anno. Se le cose stanno così forse abbiamo qualche speranza che non ci sia alcuna guerra. Quando mai si annuncia in questo modo plateale un attacco così complicato e pericoloso ai siti nucleari iraniani?
Il pericolo è sotto traccia da quando gli iraniani hanno deciso di avviare il loro processo nucleare, lasciando tracce evidenti della loro ambizione di non creare tanto energia pacifica quanto la bomba. Da un paio di mesi, tuttavia, in un crescendo rossiniano si parla sempre più dell’imminenza di un attacco israeliano con dettagli, dichiarazioni, primizie dei servizi segreti. Prima un’intervista alla CNN del ministro della Difesa Ehud Barak – Mister Security d’Israele – seguita da altre alle tv israeliane come per preparare anche il fronte interno alla guerra. Poi una pagina intera sul New York Times e un'altra ancora su Ha’aretz. L’insieme delle notizie, delle ipotesi e delle previsioni viene ripreso anche dal Corriere della Sera in un’altra paginona.
“E’ una questione di mesi, non di due o tre anni”, sostiene Barak. In realtà occorre ancora tempo perché Tehran arricchisca l’uranio al 90%, necessario per fare l’ordigno. A quel punto l’ayatollah Khamenei dovrà prendere la decisione politica di assemblare la bomba. Infine bisognerà ridurla alle dimensioni necessarie perché un missile la porti sull’obiettivo desiderato. La tesi di Barak è: ci vuole tempo ma entro pochissimo tempo gli iraniani raggiungeranno la “zona d’immunità”. Cioè il punto di non ritorno superato il quale nemmeno un bombardamento dei siti permetterebbe di fermare il processo.
In Israele ci sono solo due veri sostenitori di un attacco all’Iran, almeno a parole: il premier Bibi Netanyahu e Barak. I due uomini più potenti del Paese. La comunità dei servizi segreti – Mossad e apparati militari – è sempre stata contraria: troppo pericoloso agire militarmente contro un pericolo ancora ipotetico. Meir Dagan, il capo del servizio segreto esterno, il Mossad, sosteneva che un’eventuale bomba iraniana sarebbe un problema ma non una “minaccia esistenziale” per Israele. E’ solo di fronte a quello che viene percepito come un pericolo assoluto, che si mette in moto la macchina militare israeliana.
Ma come ha scritto su Yediot Ahronot Nahum Barnea, il più famoso giornalista d’Israele, negli apparati della sicurezza è appena avvenuto il regolare turnover: tutti gli oppositori più autorevoli al bombardamento dell’Iran sono andati in pensione. A questa coincidenza favorevole per chi vuole l’azione, se ne aggiunge un’altra: gli americani se ne sono andati dall’Iraq e dunque non ne controllano più lo spazio aereo che i caccia-bombardieri israeliani dovrebbero attraversare per raggiungere le centrali iraniane. Gli americani, contrari all’azione, avrebbero fermato l’attacco. Gli iracheno non hanno i mezzi per farlo.
Quando gli avevano chiesto se temeva che l’alleato israeliano avrebbe potuto bombardare l’Iran senza prima avvisare gli americani, il segretario alla Difesa Leon Panetta aveva risposto di si. Lo temeva. Probabilmente gli americani verrebbero informati solo con gli aerei già in volo.
Ma il punto è un altro. Pur con tutti questi indizi. Anzi: proprio a causa di tutti questi indizi che sembrano annunci alla stampa, è pensabile che gli israeliani stiano per colpire? Storicamente non è nel loro stile. Non è forse una campagna con un altro obiettivo? Per esempio, insieme all’inasprimento delle sanzioni economiche, quello di mostrare agli iraniani che tutte le opzioni sono pronte per fermare la militarizzazione del loro nucleare. Io credo sia così. Anche se non ci scommetterei sopra un mese di stipendio.