Il bluff è ad altissimo rischio. Non ci sono sanzioni economiche che possano spingere l’Iran a minacciare di chiudere lo stretto di Hormuz, bloccando la metà delle esportazioni petrolifere mondiali. Nemmeno durante la guerra con l’Iraq, negli anni ’80, il regime era arrivato a tanto. Avevano fatto finta che qualcuno avesse lasciato delle mine a galleggiare qua e la in quell’essenziale braccio di mare; avevano inviato con solerzia degli sminatori a fingere di garantirne la sicurezza. Mai, tuttavia, si erano assunti la responsabilità di una tale minaccia alla navigazione mondiale del petrolio.
Oggi invece il vice presidente iraniano afferma di poterlo fare, se l’Occidente insisterà con le sanzioni, e il vice comandante della Guardia Rivoluzionaria spiega che gli Stati Uniti non sono nella condizione di impedire il blocco di Hormuz (notare: parlano i vice, non i responsabili più diretti).
Perché stanno rischiando così tanto? Forse perché le sanzioni pensate per punire il nucleare iraniano sempre più militare, colpirebbero al cuore il sistema. Forse c’è un’altra ragione meno ottimistica. Il regime islamico si è convinto che gli Stati Uniti e ancor meno il resto dell’Occidente, non attaccheranno mai l’Iran. Sono tre anni che si parla di un’offensiva militare ma per farlo occorrono soldi e “stamina”, come dicono gli americani per indicare gli attributi.
Nel loro piatto dibattito, i candidati repubblicani alle primarie promettono botte da orbi agli iraniani ma, non meno di Barack Obama, sanno che sarebbe impossibile, due settimane dopo il ritiro dal’Iraq e 3mila miliardi, proporre una guerra più onerosa. Gli europei ancora ringraziano i loro dei per essere usciti vittoriosi dal bombardamento a basso costo della Libia. Ve lo immaginereste Mario Monti distogliere l’attenzione dalla prossima asta dei btp e annunciare la partecipazione italiana al bombardamento di Natanz?
Naturalmente c’è di meglio che fare guerre per risolvere i problemi del Medio Oriente: si potrebbe aiutare economicamente le Primavere arabe, per esempio. Più democrazia e più benessere nella regione isolerebbero definitivamente l’Iran, spingerebbero il regime ad aprirsi o la gente a ribellarsi in massa.
Facciamo due conti. Nel 1948 con il Piano Marshall gli Stati Uniti stanziarono 13 miliardi di dollari in sussidi diretti per la rinascita dell’Europa e del Giappone: il 5% del Pil americano. Se per far decollare i Paesi arabi oggi dovessero investire la stessa percentuale, dovrebbero sborsare 700 miliardi. Al momento hanno offerto all’Egitto di cancellare un miliardo del suo debito e garanzie sul credito (non credito diretto) per un altro miliardo.
Come potrebbero fare diversamente? Il Congressional Budget Office prevede un persistente deficit di bilancio per i prossimi 25 anni. In un’ipotesi negativa ma “plausibile”, il debito federale potrebbe superare il 100% del Pil entro il 2023 e il 190 nel 2035. “La questione è chiara e inevitabile: gli Stati Uniti semplicemente non avranno le risorse per dedicarsi agli affari internazionali come facevano in passato”, dice Stephen Walt della Kennedy School of Government di Harvard. Tuttavia agli iraniani non conviene tirare troppo la corda. Se il problema diventano il Golfo e il suo petrolio, una guerra la pagano volentieri i sauditi.