Eppur si è mossa e benché l’abbia fatto, ancora si fatica a crederlo: la Lega Araba ha sospeso la Siria e invitato l’opposizione a colloquio. Questo non interromperà il piccolo ma metodico massacro quotidiano nelle città di quel Paese, non farà d’improvviso crollare il regime che ne è responsabile. Ma nulla come la messa in mora dell’organizzazione che raccoglie i 22 Paesi arabi della regione, segna la fine di Bashar Assad: quando accadrà non lo sa nessuno, che avverrà è ormai certo.
Per capire lo stupore per tanta determinazione bisogna conoscere i 66 anni di storia della Lega. Voleva essere l’agorà del panarabismo e quasi mai è riuscita ad essere più del diwan nel quale dittatori e autocrati si specchiavano, l’uno sostenendo il regime dell’altro. Capitavano litigi monumentali, volavano insulti pesanti con giuramenti di vendetta e minacce di guerra. C’erano ostilità antiche e profonde. Ma fuori dalla sala sempre con un grande tavolo, grandi poltrone ed enorme lampadario ovunque il vertice si svolgesse, non si veniva a sapere nulla. Perché effettivamente non succedeva quasi mai nulla: mai qualcuno metteva in discussione la legittimità dell’altro. Se fosse accaduto, il castello sarebbe crollato.
Già a marzo la Lega aveva votato a favore della no-fly zone sopra la Libia e fu un evento. E già i leaders dell’opposizione libica furono accolti prima che Gheddafi perdesse anche Tripoli. Ma la Libia non è la Siria come Gheddafi non era Bashar Assad, figlio di Hafez il Leone, il partito Baath, un esercito potente, quattro guerre dirette a Israele più altre tre o quattro per interposti palestinesi e libanesi, un Paese fondamentale della regione. Il nome esteso della Siria è Repubblica Araba di Siria, pilastro del panarabismo. Ma è proprio la fine del panarabismo, già intuita con l’inizio delle Primavere, che certifica l’esclusione della Siria dalla Lega.
Oggi il Paese arabo più decisivo del Medio Oriente è il Qatar: 400mila abitanti e un reddito di 180mila dollari procapite, il più alto del mondo. Guida la coalizione contro Gheddafi, convince gli altri ad escludere la Siria, organizza i mondiali di calcio e compra banche in Europa. In passato non erano queste le caratteristiche del Paese alla guida del mondo arabo. L’Egitto di Gamal Nasser era sovraffollato, poverissimo e iper-armato. Fine del panarabismo, di una Fenice che si ricordava di esistere solo quando di mezzo c’era Israele: il nemico taumaturgo di tutte le arretratezze e le miserie dei regimi arabi.
Riferendosi a Bashar Assad, qualche giorno fa re Abdullah di Giordania, suo coetaneo, diceva: “Fossi in lui mi dimetterei”. Il candore non inganni, per i canoni arabi del potere è una dichiarazione rivoluzionaria. Sta esattamente accadendo quello che non era avvenuto per 66 anni: un leader mette in discussione pubblicamente la legittimità di un altro. E’ curioso che anche l’Arabia Saudita partecipi all’indignazione democratica sulla Siria, spendendosi altrove per sostenere regimi illiberali, compreso se stessa. Probabilmente hanno letto il Gattopardo: cavalcare le rivoluzioni perché alla fine nulla cambi.
O forse è la Primavera che non è un vento impetuoso ovunque ma dappertutto è brezza. Il palazzo della Lega Araba, al Cairo, è di profilo fra il Nilo e piazza Tahrir. Nemmeno cercando di non farsi notare è rimasto del tutto immune dall’aria di Primavera venuta dalla piazza. Inch’Allah.