Non doveva esserci una tregua duratura? Non sembrava che almeno per un po’ Gaza dovesse essere un posto tranquillo? Le illusioni sollevate dalla liberazione di Gilad Shalit e da quella di 500 palestinesi sono si e no durate un paio di settimane. Poi, la solita vecchia storia: 10 morti, una trentina di razzi palestinesi lanciati su Israele e un raid dell’aviazione israeliana su Gaza in meno di un fine settimana.
Sembrerà strano –qui mai nulla è davvero strano – ma è proprio la liberazione del soldato israeliano e dei 500 palestinesi la causa degli avvenimenti. Hamas che dovrebbe controllare la striscia di Gaza al punto da pretendere visti d’ingresso agli stranieri, ha avuto il suo successo, concludendo la trattativa con gli israeliani. Ma il successo ha sollevato invidie.
La Jihad islamica doveva fare qualcosa, ricordare ai palestinesi e al mondo arabo di esistere. Come? Con l’unico mezzo a disposizione: lanciando Kassam e Grad su Israele. Per i palestinesi, nemmeno quelli di Gaza, la lotta dura senza paura non è più una ragione di consenso. Nella loro elaborazione politica dal respiro di una formica, quelli della Jihad credono che lanciare razzi serva ancora. Li fa sentire uomini veri.
Gli egiziani hanno ripreso il negoziato con le parti per ristabilire una tregua; Hamas e Israele non hanno nessuna voglia di riprendere la loro guerricciola (1400 palestinesi e una quindicina d’israeliani) lasciata in sospeso nel gennaio 2009; perfino la Jihad si ritiene soddisfatta: ha ottenuto la visibilità che voleva, uccidendo un “sionista” ha vendicato la morte di nove dei suoi. Adesso tutto può tornare alla normalità fino alla prossima. Perché è fatale che con trenta razzi e 10 morti o mille razzi e 100 morti, prima o poi si ricomincia.
E’ piuttosto evidente che Hamas non sia in grado di garantire l’ordine su Gaza. A volte è la Jihad, altre l’ala militare dello stesso movimento islamico predominante, desiderosa di dimostrare di avere indipendenza e potere su quella politica. Il problema sembra senza vie d’uscita.
Invece una strada da percorrere ci sarebbe. Mostrare ai palestinesi di Gaza che il pragmatismo e la moderazione dell’Autorità palestinese di Cisgiordania pagano. Se Israele premiasse con una trattativa di pace vera gli sforzi realizzati dal presidente Abu Mazen e dal suo premier Salam Fayad; se premiassero con una trattativa di pace vera il loro tentativo di garantire l’ordine e la sicurezza, di creare in pace le istituzioni necessarie per uno Stato, i palestinesi “cattivi” capirebbero cosa serva di più alla causa nazionale.
Invece accade esattamente il contrario. La settimana scorsa, quando i militari avevano consigliato di liberare alcuni dirigenti di Fatah per bilanciare il successo di Hamas e non indebolire l’Autorità palestinese di Ramallah, i ministri sono insorti. Quello degli Esteri, l’ormai mitico Avigdor Lieberman, sostiene che il presidente palestinese debba essere punito per aver sfidato Israele alle Nazioni Unite. “Se Abu Mazen cade ce ne faremo una ragione”, ha commentato Lieberman il cui modello è Vladimir Putin, facendo fremere di orrore i generali israeliani.
Questo governo nazional-religioso di estrema destra preferisce i palestinesi “cattivi”, quelli con i Kassam, i Kalashnikov, le cinture esplosive, la retorica islamica. Il nemico icona, insomma. Teme invece il palestinese in giacca e cravatta, ascoltato e compreso in Occidente, sul quale non si può sparare. Non sanno cosa dire al palestinese “buono” perché per loro non esiste: non è nel loro schema politico, culturale né tantomeno umano. Esattamente come l’israeliano per la Jihad.