“Il nuovo volto della volontà di Hamas di lavorare per la pace con gli israeliani”. Dette da un israeliano sembrano parole grosse. Ma Gershon Baskin, uno dei negoziatori del rilascio di Gilad Shalit le ha anche messe per iscritto nel suo ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato alla liberazione del giovane carrista. “Un altro vero eroe”, scrive Baskin, “è il Dott. Ghazi Hamad di Hamas che ha lavorato con me per cinque anni per assicurare il rilascio di Shalit. Una persona della quale ho fiducia, la quale ha fiducia in me”.
Baskin, presidente dell’Israel-Palestine Center for Research and Information, non è il primo ministro d’Israele. Ma le sue parole segnalano che una cosa sono i mantra della politica e una la realtà. Con Hamas non si parla, è l’assunto israeliano, qualsiasi cosa i fondamentalisti di Gaza dicano. Con l’entità sionista non si tratta, aggiungono quelli di Hamas come leggessero un versetto del Corano.
Prima di credere che sia tutto così vero, fate un salto a Kerem Shalom, il passaggio commerciale di frontiera fra Israele e Gaza. Vi transitano 280 camion al giorno: in una direzione carichi di merci e materiali israeliani e internazionali per la striscia; in un’altra pieni di prodotti palestinesi, soprattutto verdura e fiori, per l’esportazione dal porto di Ashdod, più a Nord. Sono in corso lavori di ampliamento che triplicheranno l’attuale terminal di Kerem Shalom. Con i materiali di costruzione che ora Israele non blocca più, nella Striscia sono in corso i lavori di 163 progetti. La disoccupazione è calata dal 40 al 25% e attraverso le rimesse da Ramallah dell’Autorità palestinese di Salam Fayyad, 70mila dipendenti pubblici ricevono un salario regolare. La settimana scorsa Hamas ha disperso, prima che raggiungesse le postazioni israeliane, una manifestazione di solidarietà con i prigionieri palestinesi nelle carceri dello Stato ebraico.
Ami Shaked, il direttore israeliano di Kerem Shalom, era il capo della sicurezza delle colonie di Gush Katif, prima che Ariel Sharon ne ordinasse l’evacuazione nel 2005. Dovrebbe odiare quelli di Hamas più di chiunque altro, eppure ora sono i suoi partner. I funzionari israeliani e palestinesi, ufficialmente non si parlano: trattano via contractors privati e rappresentanti Onu che si occupano del coordinamento logistico del terminal. Ufficiosamente israeliani e Hamas vivono quotidianamente a contatto diretto.
Questa non è pace. La chiamano “status quo”. La sicurezza resta alta perché è solo una fragile tregua commerciale. Se è condivisa da Hamed Jabri, il capo militare di Hamas, piace poco a Mohammed Deif e all’ala più radicale del movimento islamico. Ma sta funzionando ed è la prova che si può fare. Qualcuno ha scritto che con la liberazione di mille prigionieri in cambio di un soldato israeliano, Hamas ha stracciato Abu Mazen. A me sembra il contrario. Il pragmatismo dell’Autorità palestinese di Ramallah, la moderazione con la quale Abu Mazen ha saputo presentare la causa palestinese all’Onu, cioè davanti al mondo intero, stanno costringendo Hamas a inseguire. Trattare paga, la lotta armata no.