Che sia per mano dei contractors che dovrebbero distribuire cibo o degli israeliani; vittime dei deliri di Hamas o delle bombe d’Israele che per eliminare un miliziano uccidono cento innocenti: per l’una o l’altra causa, i palestinesi continuano a morire anche se ora “tregua” è la parola più spesa.
E’ forse questione di ore. In principio il governo israeliano e poi anche Hamas hanno dato il loro assenso. Quasi come all’ultimo vertice Nato, dove l’approvazione per Donald Trump era finita in insopportabile cortigianeria, anche qui i due nemici sanno che non è semplice deludere il presidente americano.
La tregua è vicina, probabilmente. Mentre i palestinesi continuano a morire a centinaia, i due nemici valutano la proposta di americani, Egitto e Qatar. Limano punti, fanno aggiunte. Hamas cerca di sopravvivere alla catastrofe che ha provocato, pensando a come mantenere il controllo della striscia oltre i due mesi di tregua: quanti ostaggi vivi e morti rilasciare, quando e in quale modo, tenendone qualcuno come assicurazione per il futuro.
Anche Benjamin Netanyahu pensa alla sopravvivenza politica. A come rendere compatibile la tenuta della sua coalizione di estrema destra, con quello che a Washington Trump gli imporrà. I suoi alleati più radicali pretendono “obiettivi chiari”: guerra fino alla vittoria, spingere i palestinesi in Egitto e annettere la striscia.
Per evitare il fallimento di quella precedente, nei due mesi di calma i negoziatori cercheranno di concordare i passi successivi alla tregua: una trattativa per una pace duratura che preveda un governo tecnico palestinese e una forza inter-araba che riporti l’ordine. Fino a quel momento, ora impossibile da prevedere, la popolazione di Gaza avrà un accesso più efficace all’aiuto umanitario, possibilmente gestito dall’Onu e non più dalla Gaza Humanitarian Foudation dal grilletto facile. Fino a una pace concordata, sarà impossibile avviare la ricostruzione. Secondo l’Onu per trovare qualcosa di simile alla distruzione urbana provocata da Israele con l’aiuto attivo di Hamas, bisogna risalire alla Berlino del 1945.
A Netanyahu serve mantenere vago il futuro oltre la tregua, almeno fino a fine luglio, quando il Parlamento inizia la pausa estiva. Riaprirà a ottobre inoltrato. Qualsiasi cosa accada, dunque, Bibi resterà al potere. Poi si vedrà. Sono tempi che potrebbero non coincidere con le aspettative di Trump. Lui non aspira solo a un compromesso fra israeliani e palestinesi, sogno proibito di ogni presidente americano per entrare nella Storia. Trump vuole la pace in Medio Oriente.
Anche se non fosse esistito Israele, la regione sarebbe stata comunque instabile: petrolio, società tribali, scontri religiosi. Tuttavia il conflitto fra ebrei e palestinesi rimane la fonte primaria dell’insicurezza mediorientale, la madre di tutti i conflitti. In 77 anni quattro guerre arabo-israeliane, due in Libano, una con l’Iran, due intifade; delle crisi a Gaza si è perso il conto fino all’ultimo disastro.
Nel 2002, al vertice della Lega Araba di Beirut, il principe ereditario saudita Abdullah avanzò l’”Iniziativa di pace araba”: riconoscimento d’Israele in cambio del suo ritiro dai territori occupati. Vi aderirono tutti i paesi della regione ma l’allora premier Ariel Sharon la ignorò.
Ora Donald Trump ha la stessa ambizione: amichevoli relazioni di Libano, Siria, sauditi, Oman, in cambio della pace. Ma quale pace? La tregua e neanche la fine del conflitto a Gaza basterebbero. Come nel 2002, il consenso israeliano a una trattativa per il futuro palestinese, è la chiave fondamentale. E’ ciò che i paesi arabi coinvolti hanno ripetuto a Trump. Ma ora l’ostacolo in Israele non sono solo gli estremisti al governo: è la maggioranza dell’opinione pubblica a respingere l’idea di uno stato palestinese. Il più antico dei conflitti torna come sempre al suo inizio, al piano Onu di spartizione del 1947. Allora furono gli arabi a respingerlo ma in questo conflitto senza fine nessuno può dichiararsi innocente.