Nell’attesa dello spoglio dei voti che contano, la Cnn spiegava stato dopo stato quali erano le preoccupazioni degli americani che avrebbero determinato le loro scelte elettorali. L’economia, gli immigrati, l’aborto, la qualità della democrazia. La politica estera della superpotenza americana, quando era menzionata, non andava mai oltre il 4-5%.
E’ evidente che il primo risultato del voto sia, infatti, un radicale mutamento interno: è iniziata l’età di un nuovo cesarismo americano. Oggi nessuno è in grado di dire se durerà lo spazio di un mandato presidenziale o sarà un mutamento strutturale come il passaggio di Roma dalla repubblica all’impero.
Ma sarà la nuova politica estera americana il mutamento tettonico di queste elezioni: come dispiegherà la sua potenza nel mondo, una forza che rimane imbattibile e continuerà ad esserlo chiunque la governi.
L’isolazionismo e il rifiuto d’impegnare il paese nelle guerre degli altri, sembrano i mantra della futura amministrazione. In campagna elettorale Trump aveva promesso che avrebbe risolto in 24 ore le guerre in Ucraina e Gaza. Ma come saranno esercitate queste convinzioni nel XXI secolo, in un mondo molto più complesso e interconnesso; con pericolose guerre in corso e altre latenti nella penisola coreana, a Taiwan, Georgia, Sahel; con un numero crescente di arsenali nucleari, per la prima volta privi di un trattato sulla non proliferazione che ne regoli i limiti?
La vittoria così travolgente del sovranismo in America, potrebbe incentivare i nazionalismi latenti o già palesi in Europa, sponsorizzati e protetti dalla Russia di Vladimir Putin: i serbi in Bosnia, i filo-russi in Moldavia, Georgia e in alcuni paesi membri dell’Unione europea. Il primo ad essere preoccupato è certamente Volodymyr Zelensky. Come riuscirà a condurre la guerra e soprattutto ad avere la garanzia di entrare nel sistema di protezione della Nato, in caso di soluzione politica del conflitto, ora sono a rischio.
Ma immediatamente dopo Zelensky siamo noi europei, parte della Ue e della Nato, a doverci preoccupare di più. Per quasi 80 anni abbiamo appaltato la nostra sicurezza agli Stati Uniti. E’ altamente probabile che non sarà più possibile, anche se in questi ultimi due anni la gran parte degli europei ha raggiunto e superato il 2% di Pil in spese per la Difesa, come chiedono gli Stati Uniti da tempo. Donald Trump aveva minacciato di consegnare alla volontà di Putin i paesi che non raggiungono quel limite. Uno di questi è l’Italia.
“Una potente riaffermazione” dell’alleanza americana con Israele, è stato il commento di Benjamin Netanyahu sul risultato elettorale. Potrebbe essere un giudizio eccessivamente ottimistico. Ciò che davvero interessa a Trump del Medio Oriente non sono le guerre d’Israele (l’aiuto militare comunque non cesserà mai) ma il business con l’Arabia Saudita. Qualsiasi cosa sia d’ostacolo al suo sviluppo, non verrà apprezzato.
La convincente vittoria elettorale di Trump – rispetto a quattro anni fa più donne, più latinos, più afro-americani hanno votato per lui – avrà importanti conseguenze sui rapporti di forza geopolitici. Forse sarebbe accaduto anche se avesse vinto Kamala Harris: l’imperialismo da XIX secolo di Vladimir Putin, quello più articolato ed efficace di Xi Jimping, i paesi dal peso crescente del Sud globale, avrebbero comunque imposto una rivalutazione nei comportamenti delle democrazie liberali. Il mutamento del paese leader dell’occidente equivale a un’intimazione al cambiamento.
Al netto delle molte ragioni che hanno spinto la maggioranza degli americani a tornare a un uomo del quale avevano già misurato limiti e umori, per gli alleati che hanno sempre apprezzato l’importanza degli Stati Uniti, è come un disinganno. Tuttavia Samuel Huntington, lo scienziato della politica che aveva creato la teoria dello scontro fra civiltà, spiegava che “l’America non è una menzogna, è piuttosto una delusione. Ma può essere una delusione perché è anche una speranza”.