E’ forte, quasi universale, il desiderio di vedere la fine della guerra a Gaza, del quotidiano massacro di civili palestinesi, il risveglio d’Israele dal suo smarrimento morale. E’ per questo che l’annuncio di Joe Biden in diretta tv di un piano di pace, è stato come una ventata d’aria fresca e di speranza.
Ma è meglio mantenere le cinture allacciate e non farsi prendere dall’ottimismo. Un grande scrittore arabo israeliano di Haifa, Emil Habibi, tanti anni fa aveva coniato la definizione di “pessottimista”. Per non farsi prendere di nuovo dallo sconforto, potrebbe essere utile anche in questo caso.
La proposta originale del cessate il fuoco era stata israeliana: una pausa di sei settimane per completare lo scambio fra altri prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani, e inviare aiuti umanitari nella striscia. Il piano andava bene anche a Bibi Netanyahu: avrebbe conquistato consensi tra i familiari degli ostaggi e allentato la pressione internazionale sul disastro di Gaza.
E’ stato Joe Biden a trasformare un cessate il fuoco in un possibile piano di pace: un po’ come quei costruttori incaricati di edificare una casa di tre piani ma loro ne fanno otto. Le sei settimane devono si servire allo scambio di prigionieri e agli aiuti a Gaza. Ma nel frattempo, attraverso la mediazione americana, del Qatar e dell’Egitto, si devono porre le basi di un cessate il fuoco permanente (seconda fase) e infine per la ricostruzione di Gaza (terza, pluridecennale).
La spallata di Biden è giustificata dall’esordio del suo discorso: il mondo è stanco di questo massacro insensato; tutti sanno che dopo quasi otto mesi di guerra, Hamas non ha più le capacita militari di attaccare come il 7 ottobre. Nella retorica delle destre israeliane, la possibilità che quella tragedia si ripeta, è la giustificazione di questa guerra.
In un certo senso Joe Biden ha perpetrato una truffa, sia pure a fin di bene e probabilmente la gran parte dei paesi del mondo sarebbe pronta a parteciparvi. Ha presentato un compromesso temporale come un piano di pace, sull’indiscutibile principio che prima o poi le guerre finiscono.
Anche Hamas ne è entusiasta: al movimento islamico basta sopravvivere per dichiarare vittoria e rivendicare un ruolo politico nelle trattative del “day after”. Per questo i suoi negoziatori avevano sempre detto no a ogni precedente proposta di tregua: erano a tempo determinato.
L’esatto contrario di ciò che vuole Netanyahu: anche per lui questa guerra è una questione di sopravvivenza politica. Non può accettare la miracolosa trasformazione di una zucca in un cocchio regale. Perderebbe l’alleanza con i partiti di estrema destra e dunque la maggioranza parlamentare; sarebbe messo sotto processo dalla commissione d’inchiesta che sarà creata alla fine della guerra per determinare le responsabilità della drammatica impreparazione israeliana il 7 ottobre.
La guerra finirà quando Hamas sarà sradicata da Gaza, è il mantra di Netanyahu. Sa bene che l’obiettivo è irraggiungibile. Qualche giorno fa il suo consigliere per la sicurezza nazionale ha sostenuto che la guerra continuerà per almeno altri sette mesi. Potrebbero raddoppiare anche le vittime palestinesi e i giovani israeliani uccisi al fronte. Ma quello che conta per Netanyahu è la sua sopravvivenza. E non è escluso che continuando la guerra non aumenti il suo consenso popolare. Si resta dunque al punto di partenza: al giorno precedente il discorso di Biden.