Un famoso giornalista del New York Times, Antony Lewis, due volte premio Pulitzer, sosteneva che in politica il realismo è “un’ossessione per l’ordine e il potere a spese dell’umanità”. Per molti è l’epitaffio perfetto di Henry Kissinger: “Super K”, “Signore della realpolitik”, “Bismark del XX secolo”. Per genio o per cinismo – probabilmente per entrambi – Kissinger è stato e continuerà a essere l’esperimento più avanzato nell’esplorazione del tenue confine tra etica e necessità in diplomazia.
La sua è stata una ricerca compiuta sia da accademico che da uomo di potere. “Non abbiamo il privilegio di affrontare solo quelle sfide che lusingano i nostri preconcetti morali”, sosteneva. “Insistere con la pura moralità è in se il più immorale degli atteggiamenti”.
Comunque lo si giudichi, Heinz Alfred Kissinger, ebreo bavarese di Furth, nato il 27 maggio 1923, emigrato a Londra e poi a New York nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste, rientra nel genere dei personaggi storici. Come spesso accade a questa complessa categoria umana, il giudizio dei contemporanei fatica ad essere completo: saranno il tempo e la storia a definirlo.
La prima semplificazione è quella morale: Kissinger fu il responsabile del golpe del generale Augusto Pinochet in Cile, settembre 1973, e delle sanguinose repressioni che seguirono. E’ vero ma solo in parte. E comunque Kissinger fece molto altro. Promosse la distensione con l’Unione Sovietica, preparò il terreno per una riduzione degli arsenali nucleari, fu l’architetto dell’apertura alla Cina maoista; in Medio Oriente creò le condizioni della pace fra Egitto e Israele che poi Jimmy Carter avrebbe finalizzato a Camp David, e negoziò il ritiro americano dal Vietnam per il quale ricevette un Nobel forse troppo generoso.
L’altra semplificazione dei contemporanei è di considerare solo il Kissinger di potere. Padrone assoluto della politica estera americana lo fu per otto anni: dal 1969, quando Richard Nixon lo nominò Consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di Stato, al 1977 quando Gerald Ford lasciò la Casa Bianca dopo la vittoria del democratico Carter. Prima e dopo c’è un sessantennio da storico della diplomazia, da filosofo della politica sulle cui opere si sono formate generazioni di politici e diplomatici di un numero sconfinato di paesi. Tre libri di memorie, 16 saggi: da “Metternich, Castlereagh and the Problems of Peace, 1812-22”, la sua dissertazione di laurea summa cum laude ad Harvard nel 1954, poi pubblicata come saggio; fino a “World Order” del 2014 (Penguin Press, New York), una sintesi lucida del mondo contemporaneo; e a “Leadership” del 2022 (Mondadori), un’analisi della strategia globale attraverso il ritratto di sei grandi leader: da Konrad Adenauer a Margaret Thatcher. A 100 anni compiuti, Kissinger ha anche trovato il tempo di confrontarsi col futuro: “L’era dell’intelligenza artificiale” (Mondadori). Il suo ultimo saggio sul “futuro dell’identità umana”, scritto con Eric Schmidt, ex Ceo dei Google, e Daniel Huttenlocher, decano del Massachusetts Institute of Technology.
Senza contare le centinaia di articoli, interviste, conferenze, lezioni nelle quali Kissinger ha sempre ricordato che senza conoscere il contesto storico nel quale agisce, la diplomazia non può funzionare. In questa “historical ignorance” Kissinger vedeva la fondamentale debolezza della politica estera americana in ogni contesto geografico.
Perché Heinz Kissinger che aveva raggiunto i vertici del potere nel Nuovo Mondo, era intrinsecamente un europeo del XX secolo, i cui modelli risalivano al XIX: l’austriaco Klemens von Metternich e il tedesco Otto von Bismark. La sua esperienza personale e formativa fu il fallimento della diplomazia europea degli anni Trenta e il trionfo del nazismo.
Che Kissinger fosse un uomo più di pensiero che d’azione, lo compresero i comandanti dell’84^ divisione di fanteria di stanza ad Hannover, nella quale era stato arruolato nel 1945, a guerra finita. Fu subito trasferito alla sezione Intelligence col compito di scovare i membri nascosti della Gestapo e avviare la denazificazione della Germania sconfitta. Presto Kissinger tornò all’accademia, a Harvard. Il suo primo contatto con la politica reale fu Nelson Rockefeller, partecipando da autore di discorsi e consigliere, ai suoi inutili tentativi di conquistare la nomination repubblicana nel 1960, ’64 e ’68.
Nonostante Kissinger lo avesse definito “il più pericoloso dei candidati alla presidenza”, l’anno seguente Richard Nixon lo arruolò nella sua amministrazione come Consigliere per la sicurezza nazionale. Fra il presidente e il suo esperto di diplomazia nacque una relazione simbiotica. Nonostante, fino al 1973, il segretario di Stato fosse William Rogers, per Nixon chi doveva guidare la diplomazia americana era Kissinger.
Negli anni della Guerra fredda la politica estera aveva un’importanza fondamentale nell’elezione di un presidente. L’accordo di pace sul Vietnam ormai imminente, la trattativa segreta con Zhou Enlai e il vertice di Pechino con Mao, la distensione con l’Unione Sovietica, tutti negoziati da Kissinger, avevano garantito la travolgente rielezione di Nixon nel 1972: 49 stati su 50, 60,70% di voto popolare sul democratico George McGovern. L’ingresso nella storia di Nixon sarebbe stato impedito dallo scandalo Watergate e dalla sua amoralità politica.
Tuttavia, anche in mezzo a quella crisi, privo di un presidente ormai focalizzato sulla sua sopravvivenza politica e non sui doveri del mandato, Henry Kissinger tentò d’impedire uno scontro militare fra Israele ed Egitto. Quando scoppiò la guerra del Kippur del 1973, causata dall’ostinazione della premier israeliana Golda Meir, riuscì a imporre un cessate il fuoco. Subito dopo, con un’instancabile navetta diplomatica fra Il Cairo, Gerusalemme e Damasco, creò le necessarie premesse per la pace di Camp David di qualche anno più tardi, conclusa da Jimmy Carter.
Restano su Kissinger l’ombra del golpe cileno e, forse ancor peggio, il via libera che diede alle repressioni dei militari argentini. “Non c’è solo il giusto e lo sbagliato, nel mezzo esistono molte ombre”; gli alti incarichi di potere “insegnano a prendere decisioni, non a cogliere la sostanza”, avrebbe obiettato: sembrano tentativi di auto-assoluzione. Ma Henry Kissinger non si è mai pentito delle sue azioni pubbliche.
Guardando al Congresso di Vienna del 1815 come un esempio di “concerto fra le nazioni” capace di garantire decenni di stabilità europea, l’obiettivo di Henry Kissinger è sempre stato un sistema di sicurezza collettiva che preservasse la pace. Non importava quale fosse il costo per ottenerla. La sua idea guida era un ordine mondiale come “insieme di regole comuni che definisce i limiti di un’azione permissibile e un equilibrio fra potenze; che imponga moderazione quando le regole sono violate, impedendo a un soggetto di soggiogare tutti gli altri”. L’accademico aveva individuato la formula, il politico non l’ha realizzata.