Sono passati trent’anni dagli accordi di Oslo; tre lustri e una intera generazione da quel giorno nel giardino delle rose della Casa Bianca, quando Yitzhak Rabin strinse senza gioia la mano di Yasser Arafat. L’impegno a lavorare per una pace fu assunto a Washington ma la trattativa preparatoria, rimasta segreta per un anno, era avvenuta con gli auspici di un inaspettato paese, la Norvegia.
Non c’è stata alcuna ricorrenza, solo qualche articolo di giornale nelle pagine interne. E’ comprensibile: nessuno celebra un fallimento, ancor meno coloro che ne furono i maggiori responsabili, gli israeliani e i palestinesi. I primi ora sono troppo presi dallo scontro istituzionale interno, nel quale è in gioco il futuro della loro democrazia etnica; i secondi troppo impegnati a sopravvivere a un’occupazione israeliana sempre più brutale e alla mediocrità delle loro guide politiche.
Eppure della trentina di piani proposti dalla comunità internazionale dal 1946 ad oggi, Oslo era stata la sola vera speranza: non raggiunse la pace ma dimostrò che era possibile costruirla. Cosa non funzionò?
L’anno di negoziato segreto tra i fiordi attorno a Oslo, servì a far capire alle due parti che una via d’uscita dal conflitto c’era. Come ricorda l’allora vice ministro degli Esteri Yossi Beilin che nel 1992 aveva avviato i contatti con i palestinesi, “si era creata una congiunzione astrale senza precedenti”.
Dopo aver appoggiato l’aggressione di Saddam Hussein al Kuwait, Arafat non aveva più l’aiuto né il denaro dei paesi arabi; la Guerra Fredda era finita ed era svanito anche il tradizionale sostegno sovietico. Nel giugno 1992 i laburisti avevano vinto le elezioni con Yitzhak Rabin: il Likud, contrario ad ogni tentativo di dialogo fino a punire per legge chi aveva contatti con i palestinesi dell’Olp, era all’opposizione.
Beilin convinse il ministro degli Esteri Shimon Peres. E a fatica Peres convinse Rabin: il premier non era mai stato un sostenitore della trattativa segreta ma riconobbe che l’occasione era irripetibile. Non meno delle ambiguità di Arafat, l’antico antagonismo fra Rabin e Peres avrebbe sempre rallentato il processo di pace.
Dopo l’anno vissuto in segretezza, riuscendo a nascondere anche alla CIA ciò che stava accadendo a Oslo, si decise di annunciare l’incredibile dialogo ed entrare nel cuore della trattativa. A quel punto era necessario coinvolgere gli americani: sarebbe stato impossibile proseguire senza l’impegno diretto dell’unica grande potenza rimasta dopo la fine della Guerra Fredda.
Alla Casa Bianca, nell’insopportabile umidità virginiana di fine estate di quel 13 settembre 1993, oltre a stringersi la mano, Rabin e Arafat si scambiarono due lettere d’impegno, per proseguire il cammino.
Nessun tavolo negoziale avrebbe potuto sostenere il peso del conflitto e i temi che il negoziato doveva affrontare per risolverlo: frontiere, sicurezza, acqua, diritto al ritorno dei profughi palestinesi, destino delle colonie ebraiche, spartizione di Gerusalemme in due capitali per due popoli.
Si decise così d’iniziare con un esperimento: “Gaza e Gerico first”. Alla città sul Mediterraneo e a quella nella valle del Giordano, fu concessa l’autonomia. Se avesse funzionato, gradualmente il processo sarebbe andato avanti, estendendolo alle altre città della Cisgiordania.
E’ ciò che avvenne con un certo successo. Ma nella gradualità s’inserirono i nemici della pace: la destra nazionalista israeliana del Likud, gli islamisti di Hamas e le sinistre palestinesi. Soprattutto il terrorismo. La narrativa israeliana spiega che tutto finì perché Arafat non voleva la pace e scatenò il terrorismo palestinese che, insieme a molte vite, demolì le speranze degli israeliani.
Questa è una parte della verità. Arafat era un uomo dai mille volti, aveva continuato ad essere capo di un movimento di liberazione, senza mai trasformarsi in statista. Anche con l’uso delle armi, era riuscito a imporre al mondo arabo il riconoscimento dei diritti palestinesi. Ma non aveva le qualità politiche e psicologiche per capire Israele: il solo avversario che poteva dare ai palestinesi l’indipendenza nazionale.
Tuttavia anche Arafat era arrivato alla conclusione che per avere uno stato palestinese servisse una pace, non la lotta armata. Entrando nel negoziato e trattando per uno stato che equivalesse solo al 35% della originale Palestina mandataria britannica, i palestinesi riconoscevano l’errore dei loro rifiuti passati.
Il primo attentato terroristico contro il processo di pace fu compiuto da un israeliano. Nel febbraio 1994, quattro mesi dopo la cerimonia alla Casa Bianca, Baruch Goldstein, un estremista religioso emigrato da Brooklyn, entrò armato nella moschea della Tomba dei Patriarchi di Hebron: uccise 29 musulmani in preghiera e ne ferì altri 125.
Goldstein era un medico militare della riserva e apparteneva a un movimento radicale ebraico messo fuori legge per razzismo sia negli Stati Uniti che in Israele. Quaranta giorni più tardi, passato il lutto, Hamas compì due attentati devastanti.
Qualche mese dopo un altro ebreo estremista assassinò Yitzhak Rabin. L’attentato fu compiuto in una piazza di Tel Aviv durante una manifestazione in sostegno della pace, continuamente attaccata dal Likud, dal suo giovane leader Benjamin Netanyahu e dai nazionalisti religiosi.
Nel 1993, quando era stato annunciato l’imminente incontro a Washington fra Rabin e Arafat, nessuno aveva festeggiato: non gli israeliani né i palestinesi. Quel giorno ero a Gerusalemme e la città rimase in silenzio. La maggioranza, a volte anche assoluta, degli israeliani avrebbe sostenuto fin quasi alla fine un compromesso con i palestinesi. Ma lo scetticismo era lo stato d’animo prevalente.
Anche fra i palestinesi. Tutti i negoziatori, sia nella prima parte in Norvegia che nella decisiva dopo la cerimonia di Washington, erano palestinesi della diaspora, i capi che avevano seguito Arafat ad Amman, a Beirut e nell’esilio di Tunisi.
I palestinesi nati e cresciuti nei Territori non furono mai coinvolti. Conoscevano gli israeliani, ne parlavano la lingua, ne subivano l’occupazione e conoscevano le loro prigioni. Ma vedevano anche quanto la democrazia israeliana funzionasse per gli ebrei. Nella loro idea di liberazione nazionale quello era il modello di governo al quale aspiravano. Arafat sarebbe tornato in Palestina con un’idea tradizionalmente più araba di gestione del potere.
L’ottimismo scarseggiava nei due campi: fra i due popoli e le loro leadership. Sari Nusseibeh appartiene a una delle famiglie più antiche di Gerusalemme. Già alla fine degli anni Ottanta aveva avviato un dialogo accademico e politico con gli israeliani. Dopo la prima parte della trattativa in Norvegia, secondo Nusseibeh, nella seconda fra i negoziatori israeliani e palestinesi “non ci fu mai un vero incontro delle menti su ciò che serviva per raggiungere la pace: gli israeliani non volevano uno stato palestinese e i palestinesi erano convinti che i primi non avrebbero mai dato loro l’indipendenza”.
In effetti, sin dallo scambio delle lettere a Washington, il processo di Oslo rimase sempre squilibrato: gli americani, diventati i soli mediatori, davano sempre priorità alle ragioni israeliane, molto meno a quelle palestinesi.
La lettera che Arafat aveva dato a Rabin riconosceva il diritto d’Israele di esistere in pace e sicurezza. Quest’ultimo invece, concedeva all’Olp, l’autorità per rappresentare il popolo palestinese. Per fare cosa? La lettera israeliana non menzionava uno stato palestinese né le colonie ebraiche nei territori occupati. Annunciarne la demolizione sarebbe stato prematuro, deciderne il congelamento sarebbe stato appropriato.
Dall’inizio di Oslo nel 1993 alla sua fine con la seconda Intifada del settembre 2000, le colonie e i loro abitanti letteralmente raddoppiarono. La Knesset, il parlamento israeliano, non abrogò mai gli incentivi economici che favorivano l’insediamento degli israeliani nei Territori occupati. Nonostante fosse in corso un processo di pace.
Gli incentivi sono tutt’ora in vigore. Secondo l’ultimo censimento del movimento israeliano Peace Now, trent’anni dopo Oslo la popolazione ebraica nei Territori occupati, compresa Gerusalemme Est palestinese, è aumentata del 332%, fino a 695.000 coloni.
Prima della nuova rivolta palestinese, nel luglio del 2000 Bill Clinton aveva convocato a Camp David quello che voleva fosse il vertice risolutivo. Non si sarebbe usciti dal ritiro presidenziale nei boschi del Maryland, senza un accordo: come aveva fatto Jimmy Carter nella pace con l’Egitto del 1978.
Entro pochi mesi Clinton avrebbe lasciato la presidenza: voleva chiudere con un successo storico. Ma al summit le parti, messe sotto pressione dalle loro opinioni pubbliche sempre più ostili, non erano preparate per arrivare a tanto.
Il vertice fallì e due mesi più tardi scoppiò la seconda Intifada palestinese, molto più violenta e sanguinosa della prima del 1988. Arafat non avrebbe avuto la forza né, forse, il desiderio di fermarla. Ma a provocarla era stato Ariel Sharon, allora leader del Likud all’opposizione, con una visita sulla Spianata del Tempio di Gerusalemme.
L’anno dopo Sharon sarebbe diventato premier e il bilancio di vite umane dell’Intifada, da una parte e dall’altra, avrebbe assunto le proporzioni di una guerra, non di una rivolta.
Una quotidianità avvelenata dal reciproco disprezzo, lo stillicidio di uno scontro senza fine, gli estremismi sempre più determinanti in entrambe le parti; l’illusione israeliana di poter ignorare l’esistenza dei palestinesi; l’incapacità palestinese di uscire in modo creativo dalle loro gabbie, se non esaltando l’inutile martirio di ragazzini inconsapevoli.
Sono le macerie di Oslo. Tuttavia, se fra israeliani e palestinesi apparirà una generazione di cittadini stanchi di tutto questo e desiderosi di convivere, è a Oslo che dovranno tornare. I loro leader non dovranno inventarsi nulla ma solo riprendere dove le cose erano state lasciate. Perché nonostante tutto, una pace è già stata scritta.
Aggiungo il mio commento sul G20 di Delhi, pubblicato la settimana scorsa sul Sole 24 Ore
G20 – ARIA FRITTA DFI SOSTANZA
A Johannesburg le fanfare avevano accompagnato la fine del vertice Brics. I cinque paesi fondatori – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – avevano annunciato l’ingresso di sei nuovi soci. Altre decine attendono con ansia. Due settimane dopo, la volontaria assenza di Xi Jinping al G20 di Delhi, metteva in vetrina la crisi fra Cina e India: due paesi fondamentali dei Brics, del G20 e dei futuri assetti globali.
Decidere quando un vertice è stato di successo o no, è sempre difficile: la diplomazia è fatta di nuances e compromessi, non di folgoranti vittorie. Sul problema più angoscioso, l’aggressione Russa all’Ucraina, il documento finale del summit di Delhi dice: “Notiamo con grande preoccupazione l’immensa sofferenza umana e l’impatto avverso delle guerre e dei conflitti nel mondo”. Bisogna aver studiato per produrre tutto questo: aria fritta capace però di tenere assieme tutti i 20 partecipanti, russo compreso.
Il grande annuncio di Narendra Modi – che come i suoi predecessori ha usato il vertice per celebrare davanti al mondo il suo paese – è l’allargamento del G20 all’Unione Africana. Porta con se altri 55 paesi. Se partecipa la UE, non si capisce perché non debba esserci anche quell’organizzazione di paesi dai Pil mediocri ma abitati da un miliardo e mezzo di persone. La prevedibile novità è che l’anno prossimo Brics e G20 dovranno cambiare nome.
L’incontro di Delhi non è stato che la raccolta di un insieme di crisi: l’inflazione mondiale, la guerra in Ucraina, l’economia cinese, il ritorno dei protezionismi commerciali; la crisi di rappresentatività del Consiglio di Sicurezza Onu, ancora costruito su una geopolitica del 1945. E di nuovo il Covid: ammalato giustificato, Pedro Sànchez è rimasto a Madrid in isolamento.
Se non proprio in crisi, l’Unione Europea è quanto meno in pausa, rispetto ai grandi obiettivi che si è fissata: attende di rieleggere il suo parlamento e scoprirne gli equilibri politici. Ed è indubbio che anche se fra più di un anno, le presidenziali americane del novembre 2024 – l’elezione delle elezioni – hanno già allungato un’ombra d’incertezza sui lavori del G20. La vittoria di un candidato con 91 capi d’accusa e già noto al resto del mondo, mescolerebbe gli equilibri mondiali in maniera imprevedibile.
Anche la riconferma di un presidente ultra-ottantenne dal passo insicuro, non risolverebbe la crisi di fiducia che il mondo nutre per gli Stati Uniti. Come scrive John Rapley della Cambridge University, autore di un saggio dedicato contemporaneamente all’impero romano, a quello americano e al futuro dell’Occidente, l’America “non godrà più quel livello di dominio economico e politico globale che ha esercitato” dopo la II Guerra Mondiale.”Ma può, con le giuste scelte, guardare a un futuro nel quale rimarrà nel mondo la nazione predominante”.
Nonostante l’impegno di Narendra Modi, l’India è un sicuro investimento sul futuro, non una soluzione per il presente. Un paese nel quale a giugno un disastro ferroviario con 300 morti e 900 feriti ne svela l’inadeguatezza infrastrutturale; e ad agosto l’allunaggio di una navicella spaziale, ne mostra le eccellenze, ha ancora da lavorare. Occorrerà una generazione perché l’India diventi il protagonista che ambisce di essere.
E’ difficile capire cosa stia emergendo da questo festival di crisi e di pletorici incontri mondiali. Fra i Brics e il G20, a Jakarta c’era stato il summit Asean fra i paesi del Sud Est asiatico (quasi il 7% del Pil globale). E nella seconda metà di questo mese, a New York ci sarà l’assemblea generale Onu.
Gli analisti del settore dovrebbero smettere di giudicare gli avvenimenti on the spot: a Johannesburg l’India sta con Putin perché compra due milioni di barili al giorno del suo petrolio; a Delhi è invece con Biden. I Brics lanciano la sfida al sistema occidentale guidato dagli Usa; il nuovo Global South governerà il mondo; prima Cina e India sono alleati, poi Xi non si presenta al G20.
L’”Histoire évènementielle”, aveva dimostrato lo storico francese Fernand Braudel, aiuta solo a intuire le dinamiche dei grandi mutamenti, ma non ne svela il punto d’arrivo. A Johannesburg Russia e Cina volevano trasformare i Brics in uno strumento anti-occidentale; India, Brasile e Sudafrica in una struttura parallela al sistema del dollaro. Fra i sei nuovi soci annunciati, solo l’Iran è in contrapposizione all’America; gli altri ne sono in varia misura alleati: l’Egitto riceve 1,3 miliardi di dollari l’anno di aiuto militare americano: secondo solo a Israele.
Il Global South non esiste né forse diventerà mai una stabile struttura politico-economica multilaterale. E’ uno spazio che ogni paese in crescita è libero di occupare, cogliendo ciò che serve da Stati Uniti, Cina e Russia. Durante la Guerra Fredda Usa e Urss comandavano i loro blocchi. Oggi lo strumento della competizione fra America e Cina è la lusinga: cercano sostegno politico o buoni affari con i paesi “multi-allineati”, blandendoli.