Forse l’offensiva ucraina è partita, forse no. Pochi tuttavia pensano che sarà decisiva al punto da porre fine alla guerra: non lo credono neanche al Pentagono. Che l’escalation riconquisti tutti i territori occupati o cronicizzi il conflitto per un tempo imprevedibile, la posizione più complicata sembra quella del regime russo.
Quella che gli americani chiamano “fog of war”, la nebbia che offusca ogni verità, impedisce di stabilire chi abbia fatto saltare la diga di Nova Kakhovka. Ma se sono gli ucraini che devono attraversare il Dnepr per riconquistare l’altra riva, è possibile che non desiderassero avanzare con fanteria e tank in una pianura allagata da 1-2 metri d’acqua. L’inondazione sembra più servire a chi è sulla difensiva.
L’”operazione speciale” che doveva prendere Kyiv in pochi giorni e ristabilire l’impero anche nella geografia, ha avuto risultati contrari: ora si combatte anche in territorio russo. Che l’attacco ucraino sia un trionfo o la guerra diventi senza fine, quanto resisterà al potere Vladimir Putin?
Il controllo sul paese sembra ferreo. Ma la minaccia al regime non viene dal fronte di guerra né da quello interno di una società civile cloroformizzata. Viene da dentro il regime.
Non c’è campo di battaglia nell’Est dell’Ucraina dove sia chiaro quali russi stanno combattendo. Se i soldati del generale Valery Vasiliyevich Gerasimov, il capo di stato maggiore delle forze amate, o le milizie.
Sono pericolosamente troppe. La Wagner di Yevgeny Prigozhin; i ceneni che vanno e vengono dal campo di battaglia a piacere; le milizie separatiste di Donetsk e Luhansk guidate da capi con la loro agenda politica. Ci sono quelle russe anti-Putin: in un eventuale crollo di regime a Mosca, anche loro rivendicherebbero un ruolo.
Le unità semi o del tutto indipendenti – chiamate battaglioni ma con gli effettivi di una brigata – si sono moltiplicate. Ne ha una anche Gazprom, la multinazionale dell’energia. Si chiama Potok e Yevgeny Prigozhin la accusa di voler indebolire Wagner più che l’esercito ucraino. Ormai un numero imprecisato di oligarchi si è creato la sua milizia. “Stanno cercando di capire cosa fare per preservare ricchezza, posizione e potere” , spiega al Financial Times un esperto di sicurezza. Anche le diverse fazioni dell’Fsb, l’ex Kgb, si starebbero organizzando per affrontare le incertezze del futuro.
L’ultima volta che la Russia subì una sconfitta disastrosa, nel 1917, un gruppo minore di estremisti, i bolscevichi, prese il potere con la violenza; ci furono cinque anni di guerra civile con molti protagonisti piccoli e grandi. Alla morte di Lenin iniziò una sanguinosa resa dei conti nel partito: purghe, processi, esecuzioni e omicidi. Infine Stalin.
Allora la Russia era un paese alla fame. Oggi è una superpotenza, per quanto in evidente declino economico, e possiede il più grande arsenale nucleare al mondo. A primavera, secondo i calcoli del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, le testate nucleari erano 4.489. Di queste 1.674 sono strategiche e operative, montate su missili balistici, cioè intercontinentali, pronte per un uso immediato. La modernizzazione dell’arsenale russo prevede l’intera sostituzione delle testate dell’era sovietica entro la fine del decennio.
La concorrenza americana e cinese, aveva detto Putin “non è veloce come una Formula 1: la velocità è supersonica. Ti fermi per un secondo e finisci indietro”. Il comportamento mediocre delle forze convenzionali in Ucraina ha ulteriormente spinto la Russia ad affidarsi al nucleare per mantenere credibilità e deterrenza. Per questo Putin ne ha minacciato l’uso come non era mai avvenuto neanche nelle ore peggiori della Guerra Fredda. “Ho ordinato di muovere le forze di deterrenza ad un regime speciale di preparazione al combattimento”, aveva annunciato solo tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina.
Secondo i servizi segreti inglesi la Russia ha già lanciato sull’Ucraina diversi vecchi missili dell’arsenale balistico sovietico: naturalmente senza testata atomica. In Russia 834 testate strategiche sono nelle basi terrestri, principalmente nella parte europea del paese; altre 640 sono nei sottomarini e circa 200 negli aeroporti degli squadroni dei bombardieri strategici. Se Vladimir Putin non avesse più il controllo, se l’Fsb, Prigozhin e gli oligarchi rischiassero di perdere il loro potere, quanto seducente sarebbe il grande arsenale nucleare russo?
INDIA, COSA SALVERA’ LA PIU’ GRANDE DEMOCRAZIA DEL MONDO
Ugo Tramballi
Quando Jawaharlal Nehru dichiarò che L’India indipendente non avrebbe avuto “nient’altro che la democrazia”, il più scettico fu Clement Attlee. Nel 1947 il premier laburista inglese incaricato di separare il “gioiello più prezioso” dal morente impero britannico, era convinto che l’India come i nuovi paesi indipendenti, “tende a degenerare in dittatura”.
Attlee si sbagliava. Nonostante guerre, povertà, le grandi diversità etniche, linguistiche e religiose, per la sua demografia l’India sarebbe diventata la più vasta democrazia del mondo. Ancora lo è, sebbene i dubbi sulla sua tenuta siano crescenti. A febbraio il New York Times sosteneva che “l’orgogliosa tradizione della libertà di stampa indiana è a rischio”. Secondo il quotidiano, il premier Narendra Modi e il suo governo nazional-induista minano “lo status di più grande democrazia al mondo”.
Nell’ultima indagine sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, l’India è precipitata al 150° posto su 180 paesi. La Russia di Vladimir Putin è dietro di cinque posizioni. Ma il problema non riguarda solo i giornalisti. Nelle università c’è una sistematica discriminazione verso docenti e intellettuali che si oppongono al potere dilagante del Bjp; così nel sistema giudiziario, nella polizia. In molti casi il diritto di critica si è trasformato in un reato.
Anche ai tempi del Congress della famiglia Nehru- Gandhi, c’era la tradizione di diffondere i ritratti dei leader. A Delhi tuttavia, l’immagine di Modi appare ovunque, anche più dei tradizionali canoni indiani. C’è perfino all’ingresso del Gandhi Smriti, il luogo ora diventato museo dove il Mahatma fu ucciso da un nazionalista hindu nel 1948. Oggi in Parlamento siedono deputati del Bjp che hanno riabilitato come eroe l’assassino di Gandhi.
Con un eufemismo, un ambasciatore europeo a Delhi sostiene che il partito nazional-religioso di Modi “è inebriato dal suo successo”. Il premier si avvicina alla fine del suo secondo mandato e il terzo, dopo le elezioni dell’anno prossimo, è dato per scontato: la vittoria sarà ancora più grande della precedente. Nell’attuale Parlamento di 543 deputati, il Bjp ha 301 seggi: potrebbe governare da solo ma ha aperto a un’ alleanza di governo, la National democratic alliance, che arriva a 329 deputati. L’anno prossimo l’obiettivo raggiungibile secondo i sondaggi, è superare quota 400.
Come dice Pratap Bhanu Mehta, accademico e scienziato della politica, epurato dalle università indiane, “il nazionalismo hindu è nato con il progetto democratico dell’India moderna: non è un’aberrazione ma lo accompagna come un’ombra. Il dubbio è in quali condizioni l’ombra diventi tanto lunga da oscurare l’orizzonte della democrazia”. L’ombra si trasforma in spettro, secondo Mehta, quando un eccessivo consenso popolare spinge all’autoritarismo.
Il consenso per Narendra Modi è fenomenale: supera costantemente il 70%, grazie anche a una importante e perdurante crescita economica. Tradizionalmente il Bjp era il partito delle caste più alte; quelle più basse e la massa dei poveri sostenevano il Congress socialista. Modi ha ribaltato la consuetudine. Viene da una casta fra le più basse, le O.B.C., acronimo di “altre caste arretrate”. Con i suoi programmi sociali la percentuale dei poveri è calata dal 28 al 16%.
Il Bjp vince e continuerà a vincere anche per l’assenza di un’alternativa nazionale pan-indiana. Il suo successo è stato facilitato dal declino del Congress, incapace di liberarsi dal controllo della famiglia Gandhi: ora ha solo 50 seggi in Parlamento. Se il Bjp governa 10 stati dell’Unione indiana e altri cinque con alleati, il Congress controlla ormai solo quattro stati più tre in coalizione.
B.R. Ambedkar, il giurista che scrisse la Costituzione, la più lunga al mondo, sosteneva che l’India è una collezione di minoranze: un insieme di caste, religioni, etnie, lingue. Forse è questa la singolarità dalla quale Narendra Modi non potrà prescindere; il tratto caratteristico destinato a ridimensionare il pericolo dell’ Hindutva, l’ideologia nazionalista dell’induismo, ad una forma di nativismo come altrove: Israele, l’America di Donald Trump, Ungheria e Polonia. Fenomeni preoccupanti ma correggibili.
Il federalismo indiano, cioè la singolarità descritta da Ambedkar, sarà forse il baluardo della democrazia indiana. Il Bjp governa da solo in 10 dei 28 stati dell’Unione. I partiti regionali vincono in otto; in altrettanti Congress e Bjp non governerebbero senza di loro.
Il Center for Political Research, un think tank di Delhi, ha contato l’esistenza di 3.892 partiti: statisticamente 139 per ogni stato. L’Uttar Pradesh, con 250 milioni di abitanti, ne ha 618, il Bihar 431. Le caste continuano ad avere un ruolo importante. Come la religione. In India il laicismo non è un’ideologia che prevede la separazione fra stato e chiesa, ma tratta tutte le religioni come uguali davanti allo stato. Il contrario di ciò che vuole il Bjp.
Spiega il Center for Political Research: “gli stati sono differenti nella loro composizione geografica, demografica e culturale. Non solo producono la domanda per uno stile distinto di governo ma anche permettono ai partiti dalle posizioni diverse, di avere successo”. Sarà questo a fermare le tentazioni autoritarie del Bjp?
Il Sole 24 Ore, 1/6/2023