Quando era partito per il suo primo viaggio dalla stazione di Delhi a quella di Varanasi, il 15 febbraio di quattro anni fa, per molti era stata una specie di rivoluzione. Vande Bharat – dal sanscrito potrebbe essere tradotto come “Orgoglio Nazionale” – era il primo convoglio senza soluzione di continuità: il primo nei 185 anni di Indian Railways, senza una locomotiva staccata dal resto del treno.
Ma c’era qualcosa di più: i 1.128 passeggeri che trasporta un Vande Bharat, parte infinitesimale degli oltre 8 miliardi d’indiani che ogni anno comprano un biglietto delle ferrovie, non viaggiavano su un postale o un espresso. Era il primo treno ad alta velocità. Produzione interamente indiana, convogli costruiti a Chennai nel Tamil Nadu, a Sud. Per ora sono sette treni, saranno 400 fra un paio d’anni.
Un solo limite, per ora: Vande Bharat corre a 130 chilometro l’ora, non proprio il passo di un’alta velocità. Per questo le Ferrovie continuano a chiamarlo “Vande Bharat Express”, sebbene a Chennai stiano sperimentando i 180 e i 200 chilometri l’ora.
Ma perché qualcosa appaia come rivoluzionaria non importa tanto che effettivamente lo sia, quanto che lo creda la gente. E gli indiani ne sono convinti. E’ parte di quello che Narendra Modi, il premier, chiama “l’era dell’India”.
Chiunque in questi mesi passasse per Delhi o Mumbai, constaterebbe un ottimismo diffuso, tangibile. Aver superato la popolazione cinese ha scatenato un patriottismo demografico senza precedenti; ancora più entusiasmante è aver tolto alla Gran Bretagna, il vecchio padrone coloniale, il posto di quinta economia mondiale: entro la fine del decennio saranno strappati il quarto e terzo a Germania e Giappone.
“Certamente l’India è ancora un work-in-progress”, spiega Anil Padmanabhan, ex direttore e fondatore del quotidiano economico Mint. “Ma non c’è ambiguità sulla direzione del cambiamento: la sfida è che abbiamo così tanto da fare in così poco tempo”.
Per molti versi la lenta alta velocità di Vande Bharat è una rappresentazione fisica delle realizzazioni, le ambizioni e i limiti dell’India di Narendra Modi: un leader che nel bene e nel male forse contenderà a Jawarlahal Nehru il primato nella storia del paese.
L’alta velocità è prima di tutto un prodotto interamente nazionale: non ci sono imprese, ingegneri né tecnici stranieri. Quando Modi aveva lanciato l’iniziativa “Make in India”, non si riferiva tanto ad aprire agli altri il mercato nazionale, quanto a invitare le grandi imprese indiane a tornare ad investire in India.
Di riforme importanti in questo campo ne sono state fatte. Ma l’istinto a proteggere l’industria nazionale è parte della psicologia indiana, chiunque la governi. Il Vietnam – 100 milioni di abitanti contro 1,4 miliardi – continua ad attrarre più investimenti diretti.
Tuttavia, nonostante le sue chiusure e l’orgoglioso nazionalismo, non si può ignorare un’economia che cresce del 7% l’anno: non c’è paese al mondo dove quel tasso si coniughi con un mercato che può contare 1,4 miliardi di consumatoti. Nè si può trascurare un sistema digitale nazionale che permette transazioni bancarie da 146 miliardi di dollari al mese, alimentando un mercato da 3mila miliardi destinato a triplicare entro il 2026.
La grande nemesi dell’India è la Cina. L’inseguimento della prima alla seconda è a lungo termine e lento, appunto, come Vande Bharat. Il CRH, la rete dell’alta velocità cinese, la più lunga e veloce del mondo, viaggia a 300 chilometri l’ora. A Shangai è in servizio un treno a “levitazione magnetica” da 431 chilometri l’ora. L’Indiana, per ora, a fatica riesce a ridurre del 25/45% la durata tradizionale dei viaggi.
Il sogno di Modi di sostituire prima o poi la Cina come fabbrica del mondo è ancora lontano dall’essere realizzato: la percentuale della manifattura sul Pil è da anni bloccata al 14/15%. Ma l’India non ha solo superato la demografia cinese per qualche centinaio di migliaia di esseri umani. Esiste anche una demografia comparativa: gli indiani sotto i 30 anni sono il 52%, i cinesi il 40, destinati a calare rapidamente.
Ogni mese per almeno i prossimi vent’anni, un milione di giovani indiani entra nel mercato del lavoro. Il problema è che la gran parte di loro non ha ricevuto un’istruzione adeguata alle ambizioni del paese. Il settore informale garantisce il 90% dell’occupazione in gran parte poco qualificata.
“Qui in India c’è una discrepanza”, spiega l’amministratore delegato di una big-pharma locale. “Le imprese cercano disperatamente lavoratori e molti giovani cercano disperatamente un lavoro. Ma milioni di loro aspirano ad entrare nella pubblica burocrazia, nelle ferrovie, nell’esercito o nella polizia”.
Prima della pandemia il costo medio del lavoro indiano era del 10% inferiore a quello cinese. E’ un vantaggio: ma solo se il governo continuerà a riformare il License Raj, l’impero burocratico. Il nuovo Production Linked Incentive è uno schema che permette di attrarre investimenti tecnologici internazionali in 14 settori industriali. Ma ancora non basta.
Un’altra iniziativa è la National Infrastructure Pipeline che fra il 2019 e il 2025 promette investimenti infrastrutturali per 1.800 miliardi di dollari. Aiuterà ad andare più veloce anche Vande Bharat ma soprattutto dovrebbe finanziare la costruzione di un’ottantina di aeroporti in cinque anni. Air India ha appena ordinato 220 nuovi aerei dalla Boeing e 250 da Airbus, con i sentiti ringraziamenti di Joe Biden ed Emmanuel Macron. Poco più di un anno fa il gruppo Tata, interamente indiano, aveva acquistato per 2,4 miliardi la compagnia di bandiera la cui operatività costava allo stato 2,6 milioni di dollari al giorno.
Ma il confronto per il primato economico con Pechino è ancora lungo: il consumo di energia procapite indiano è quattro volte più basso che in Cina e dieci volte meno degli Stati Uniti. Tuttavia la Banca Mondiale sostiene che per l’India il meglio debba ancora venire se nonostante la guerra in Ucraina, la crisi energetica e delle commodities, le pressioni inflazioniste, il suo Pil cresce del 7% .
Riguardo a questo giudizio, è sicuramente casuale che il nuovo presidente della Banca Mondiale sia un indiano: Ajay Banga, naturalizzato americano, è un sikh nato a Pune, nel Maharashtra. Ama definirsi un “made in India guy”. Per Narendra Modi anche questa è una prova dell’esistenza della nuova “era del’India”.