Israele, il costo economico di una crisi politica

Ad occhi bene aperti, Israele marcia verso la stagnazione economica”. E’ l’ammonimento dell’Inss, l’Istituto nazionale di studi strategici di Tel Aviv, il più importante think tank del paese.

Ma se oggi Israele è di fronte a una seria crisi economica non è per la mancanza di una soluzione del problema palestinese, per i razzi da Gaza, le minacce di Hezbollah e del’Iran: a questi persistenti conflitti l’economia israeliana è assuefatta. La causa è l’instabilità interna.

Con la chiusura primaverile della Knesset, il parlamento, il mese scorso il premier Bibi Netanyahu aveva congelato le riforme che stravolgevano l’equilibrio fra giudiziario ed esecutivo, a favore del secondo. Le manifestazioni contro il governo nazional-religioso non si erano fermate. Il 30 aprile la Knesset ha ripreso i lavori: la maggioranza non intende recedere, le opposizioni vogliono fermarsi. Lo scontro si fa pericoloso.

In apparenza, l’analisi di Inss sembra esagerata: solo l’anno scorso il paese aveva registrato un’inaspettata crescita del 6,4%. Israele non è più la “startup nation” di un decennio d’anni fa, ma solo perché quegli esperimenti sono diventati grandi imprese dell’hi-tech.

Tuttavia anche la Banca centrale è convinta che se passeranno le riforme sulla giustizia, Israele perderà 13,7 miliardi di dollari l’anno per i prossimi tre anni: solo per cominciare. I cambiamenti legislativi e istituzionali “saranno accompagnati da un aumento del premio di rischio paese, un impatto negativo sull’export, un declino degli investimenti interni e della domanda nei consumi”.

Sarebbe la fine di quella corsa iniziata all’inizio del secolo, che dieci anni dopo aveva aperto a Israele le porte dell’Ocse; e che nel 2021 aveva portato a un Pil procapite quasi doppio rispetto a vent’anni fa. A garantire questo successo erano state le riforme del 2005, imposte dall’allora ministro delle Finanze Bibi Netanyahu: lo stesso che oggi, con le sue decisioni illiberali e gli alleati ultra-religiosi che ha scelto, ne sta minando gli effetti.

Una componente importante delle riforme del 2005 erano stati gli incentivi occupazionali per incoraggiare il passaggio dall’assistenza a un mercato del lavoro più aperto. In Israele è una questione importante: circa il 13% della popolazione è formata dalle comunità ultra-ortodosse sefardite e askenazite. Nel 2065 saranno quasi il 33%. Il loro sistema educativo in gran parte ignora il curriculum delle scuole israeliane. I bambini sono indirizzati allo studio della religione e l’approfondimento della Torah sostituisce l’educazione superiore.

L’analisi dell’Inss, secondo il quale Israele sta marciando verso la stagnazione, ricorda che le scuole ultra-ortodosse “non danno un’educazione adatta al mercato del lavoro moderno”. Il risultato è che grazie alle riforme del 2003 il tasso d’impiego fra gli uomini ultra-ortodossi è cresciuto dal 35 al 53%”. Ma resta molto lontano dai livelli occupazionali del resto degli israeliani.

Le donne che non hanno diritto a proseguire gli studi religiosi, sono più integrate, ma svolgono lavori di basso livello e poco remunerati: “Solo circa il 20% delle ragazze e il 4 dei ragazzi” raggiungono l’equivalente del nostro diploma di maturità.

L’Hi-tech garantisce più della metà dell’export israeliano, il 45% della crescita e il 35 dell’occupazione. Ma solo il 2,5% dei lavoratori e il 4,7 delle lavoratrici sono ultra-ortodossi. Il Pil procapite degli israeliani ebrei non haredim (timorati di Dio) nel 2018 era di quasi 49mila dollari, quello degli arabi cittadini d’Israele di 17.627 e degli ebrei ultra-ortodossi di 15.188.

Se non ci sarà un significativo cambiamento, sostiene Inss, “il Pil procapite israeliano si ridurrà del 5%; del 10 entro il 2050”. “Il processo sarà aggravato dalle previste implicazioni economiche dei mutamenti del sistema giudico”, avanzati dal governo. Secondo il chief economist del ministero delle Finanze, questo comporterà un’altra riduzione dello 0,8% del Pil.

Lo stesso Bibi Netanyahu che da ministro aveva lottato contro i sussidi statali, ha previsto che nel prossimo Bilancio le istituzioni educative degli ultra-ortodossi – importanti alleati del suo esecutivo – avranno un aumento del 60% dei finanziamenti statali. Senza che sia loro imposto di introdurre lo studio della matematica e dell’inglese.

Il Sole 24 Ore, 3/5/23

  • carl |

    Un “quadro o schizzo” curioso quello tratteggiato nell’articolo.. Se l’illiberalismo si facesse largo anche nello Stato ebraico, il M.O. sarebbe indubbiamente al completo..
    Per non parlare dell’UE, ove esso si sta propagando sempre più. Una tendenza indubbiamente stimolata dalle contingenze in atto e cioè la guerra ucraina, la crescente immigrazione, la “core inflation”, e cioè quella facente leva sulle energie, le cibarie, e quant’altro..
    Anche oltre-oceano la prospettiva più probabile sembra essere l’incertezza..
    Infine dai redditi (statistici) pro-capite citati, qualcuno potrebbe dedurre che “adorare” il dio-mercato sia più redditizio del timor di Dio.. Tuttavia nell’Italia nostra il grosso dei lavoratori e pensionati risulterebbe godere (si fa per dire..) di un reddito da “haredim”, pur non essendo probabilmente tali..Ma potrei sbagliarmi..Per contro non ci piove sul fatto che non solo nell’Italia nostra l’istruzione, la formazione,ecc pur non essendo ultra-ortodosse spesso non siano comunque in sintonia con le richieste provenienti da un mondo del lavoro sempre più 4.0… Almeno per quanto riguarda la % di lavoratori in carne ed ossa di cui tutt’ora abbisogna…

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