(Vignetta di Yasser Hamed su The Arab Weekly)
Forse con l’ambizione di vincere il prossimo Nobel per la Pace, la Cina vuole risolvere anche il più antico e intrattabile conflitto del Medio Oriente, probabilmente del mondo contemporaneo: quello fra Israele e palestinesi.
“L’attuale priorità della Cina” ha detto Qin Gang, ministro degli Esteri, in una telefonata ai colleghi israeliano e palestinese, “è mettere sotto controllo la situazione e prevenire l’escalation del conflitto”. Così Pechino si propone come mediatrice per riprendere il dialogo “al più presto possibile”.
L’impresa è ai limiti dell’impossibile, troppo ambiziosa e fuori dalla realtà. La sicurezza d’Israele dipende troppo dagli Stati Uniti: 3,8 miliardi di dollari l’anno. E’ parte di un impegno a lungo termine deciso dall’amministrazione Obama nel 2016 e confermato dai successori: 38 miliardi per il decennio 2017/28. E’ il doppio di ciò che aveva sborsato l’America nel decennio 1999/08. Il libero accesso che Israele ha nell’arsenale americano più avanzato non lo possiede nessuno degli alleati Nato.
Senza contare l’investimento politico, diplomatico ed emotivo di tutte le amministrazioni, democratiche o repubblicane. Ora non più, ma una volta il presidente che fosse stato capace di imporre una pace fra israeliani e palestinesi avrebbe rivinto le elezioni.
Qin Gang ubristicamente confonde il confronto fra Iran e Arabia Saudita, dei quali ha sponsorizzato la ripresa delle relazioni diplomatiche, con il conflitto fra israeliani e palestinesi. I primi non sono disposti ad ascoltare gli appelli al dialogo dei munifici americani, ancor meno intendono farlo con i cinesi.
La crescente influenza di Pechino nel Golfo è economica: compra il 40% del suo petrolio e il 30 del gas. La Cina è il primo esportatore nella regione, più di Stati Uniti ed Europa. Nel conflitto fra israeliani e palestinesi l’aspetto economico ha un’importanza trascurabile.
Con gli anni l’economia israeliana ha imparato ad assorbire attentati e guerre con Gaza, che non spostano di un decimale i listini della Borsa di Tel Aviv. Nella loro rivolta del 2000 contro l’occupazione israeliana, ai palestinesi non importava che la seconda Intifada avrebbe distrutto la loro importante crescita economica del decennio precedente, durante la trattativa di pace.
La proposta di Qin è apparentemente senza senso. Per molti versi lo sono anche le altre iniziative di pace: sauditi e iraniani trattavano da anni la ripresa delle relazioni. Anche i 12 punti del piano per l’Ucraina, sono piuttosto inattendibili: una delle due parti, gli ucraini, ancora attende una telefonata da Xi Jinping.
La fine ingloriosa del piano l’ha decretata Lu Shaye, l’ambasciatore cinese a Parigi: secondo lui le ex repubbliche sovietiche diventate indipendenti più di 30 anni fa, non possiedono “un reale status nella legge internazionale”: cioè non hanno diritto alla sovranità nazionale. Ucraina, repubbliche baltiche, Kazakistan, Georgia e gli altri, dovrebbero continuare ad essere parte della Russia, erede dell’Unione Sovietica. Nemmeno Vladimir Putin era arrivato a tanto.
Perché tutto questo attivismo diplomatico a dir poco mal concepito? E’ imperfetto in apparenza. In realtà ha un senso: ne stiamo parlando qui nel blog; i media del mondo ne hanno parlato. E chissà quale distorsione propagandistica ne stanno facendo i siti cinesi, russi e in quello che viene definito Global South.
La Cina sta studiando da superpotenza e il suo vero obiettivo non è il Medio Oriente, il Brasile di Lula, la Russia o l’Ucraina. Ma gli Stati Uniti, ovunque la loro influenza, gli interessi economici, politici e le basi militari siano nel mondo.
Il ministro degli Esteri israeliano ha dato risposte caute al collega cinese. Ma per il palestinese Riad al-Maliki, è stato come vincere alla lotteria: sovrastati dal conflitto ucraino nelle priorità europee, abbandonati dagli arabi e ignorati da Washington, i palestinesi hanno trovato uno sponsor inaspettato.
Nell’ultimo saggio sugli ultimi 45 anni di presenza americana in Medio Oriente (Steven Simon, “Grand Delusion”, Penguin Press), l’autore spiega che i negoziatori – repubblicani o democratici ma in gran parte ebrei – non hanno mai raggiunto un risultato nel conflitto israelo-palestinese perché erano troppo impegnati a soddisfare gli obiettivi israeliani. Steven Simon, membro del Consiglio per la sicurezza nazionale di Bill Clinton e Barack Obama, è di religione ebraica.
Per l’autore, il grande disinganno mediorientale è stato imporre l’idea di libertà e società aperta che hanno gli americani: è incompatibile con la realtà mediorientale.
Probabilmente anche ai cinesi interessa molto poco dei palestinesi. Ma a Pechino sanno che nel mondo arabo, anche in quello alleato dell’Occidente, gli americani sono detestati. E non solo in questa regione. “Quello che abbiamo dalla Cina è un nuovo aeroporto, quello che abbiamo dall’America è una predica”, diceva il leader di un paese in via di sviluppo a Larry Summers, ex segretario al Tesoro.
La Banca Mondiale, il Fondo Monetario e l’Ocse concordano che nel 2023 la crescita economica della Cina sarà del 5% circa. Quella degli Stati Uniti dell’1,6 e dello 0,8 nell’Unione Europea. Gideon Rachman del Financial Times scrive che “il dollaro è la valuta più popolare per gli scambi commerciali. Ma la Cina è la più grande nazione commerciale del mondo”. E pretende sempre più di trattare in renminbi. Già prima delle sanzioni economiche europee, alla Borsa di Mosca gli scambi nella valuta cinese superavano quelli in euro.