Slow News ha ancora subito qualche problema tecnico, secondo me principalmente dovuto alle mie incapacità tecnologiche. Pubblico sul blog i due articoli usciti sul Sole 24 Ore nei difficili giorni, quaggiù a Gerusalemme, di Ramadan, Pesach e Pasqua.
Anche chi ha vissuto o conosce questo conflitto, sperando di assistere alla sua fine e al trionfo di una pace, deve riconoscere l’amara verità: israeliani e palestinesi si odiano. Vivono e spesso lavorano gli uni accanto agli altri, condividono inquinamento e scarsità d’acqua. In alcuni momenti dell’anno, come questo, vivono le loro festività religiose negli stessi giorni. Ma si detestano.
La Palestina mandataria lasciata dagli inglesi nel 1948 non è grande come l’Australia. In circa 15 milioni, Israeliani e palestinesi affollano, spesso sovrapponendosi, un territorio poco più grande della Sicilia che ha 5 milioni di abitanti. Ma coloro che hanno cercato di creare una vera vita comune, con uguali diritti, restano una minoranza residuale. Sono più numerosi i realisti: coloro i quali pensano che il reciproco riconoscimento nazionale, il compromesso e una pace, siano l’unica via d’uscita per avere un futuro normale.
Invece la maggioranza relativa di entrambi i popoli non vorrebbe riconoscere nulla all’altro, nemmeno il diritto di esistere in questo territorio così esiguo. A volte, in giorni come questi, quando un’interpretazione della fede offusca la ragione, il rifiuto dell’altro diventa maggioranza assoluta.
Nel 1993, quando fu d’improvviso annunciata l’esistenza di una trattativa, e che a Washington Yitzhak Rabin e Yasser Arafat avrebbero reciprocamente riconosciuto l’esistenza dei due popoli, e avviato un vero processo di pace, Gerusalemme rimase muta. Quando cadde il Muro, i berlinesi impazzirono di gioia. Così a Capetown, quando Nelson Mandela e Frederic de Klerk decisero di costruire un nuovo Sudafrica. Nella parte ebraica e in quella araba di Gerusalemme, invece non accadde nulla.
Il fallimento di quel processo di pace e la seconda Intifada del 2000, inflisse alla possibilità di convivenza una ferita profonda, ancora aperta fra arabi ed ebrei. I primi si sono convinti che gli israeliani non concederanno mai uno stato per loro; i secondi che Israele non ha un partner con cui fare una pace.
La conseguenza di tutto questo sono gli avvenimenti di questi giorni di Pasqua ebraica e cristiana, e di Ramadan musulmano: le violenze alla moschea di al-Aqsa, il lancio di missili a Gaza e alla frontiera del Libano, gli attentati mortali e il rischio di una nuova guerra sia al Sud che al Nord. E’ parte del gioco anche quella specie di tauromachia che israeliani e palestinesi ingaggiano quando non desiderano trasformare lo scontro quotidiano in un conflitto vero.
Nonostante dal Libano i palestinesi dei campi profughi avessero lanciato un gran numero di razzi come non accadeva dalla guerra del 2006, Israele non ha reagito con durezza. Ed Hezbollah libanese, senza il cui permesso i palestinesi non avrebbero potuto lanciare i razzi, è rimasto in silenzio. Come a Gaza: dove israeliani e Hamas si sono colpiti al minimo necessario per rispondere alle violenze di Gerusalemme.
La realtà è che nessuno se la sente d’ingaggiare una guerra. Ognuno per motivi diversi: Israele perché il paese è pericolosamente diviso sul sistema giuridico; Hezbollah per la disastrosa crisi economica libanese; Hamas perché la gente costretta a vivere sotto il suo controllo, è spossata. Ma la realtà quaggiù è anche che un eccesso di valutazione o nuovi scontri nella Gerusalemme scintilla di ogni conflitto, provochino un’altra guerra vera.
PESACH, PASQUA E RAMADAN
Vi sono anni in cui il calendario lunare sovrappone le diverse festività religiose e Gerusalemme diventa contemporaneamente il centro delle tre fedi del Libro. Il 2023 è uno di quegli anni. Dovrebbe essere una ragione di festa, invece è una causa di tensione, molto spesso di scontri violenti.
Domani in città sarà il venerdì di preghiera nel mese di digiuno del Ramadan, il più santo dell’Islam; l’inizio delle celebrazioni di Pesach, la Pasqua ebraica; il giorno della Via Crucis, la processione cristiana lungo gli stretti vicoli, la Via Dolorosa della città murata. Da che esiste, Gerusalemme ha sempre avuto troppo Dio. E in giornate come quella di domani, rischia di essere il pretesto dell’odio e della violenza degli uomini.
Un pericoloso anticipo di ciò che potrebbe accadere c’è stato nella notte fra martedì e mercoledì. Un gran numero di palestinesi si era riunito per l’ultima preghiera della sera, sulla Spianata del Tempio: per i musulmani l’Haram al Sharif, il nobile santuario. Anziché tornare a casa molti si sono chiusi nella moschea di al-Aqsa per attendere l’alba, quando un colpo di cannone a salve annuncia la ripresa del digiuno.
E’ intervenuta la polizia di frontiera israeliana. Forse i palestinesi hanno lanciato per primi delle pietre: fra i tappeti e i libri sacri spesso ci sono sassi e petardi nel caso – frequente – di uno scontro con la polizia israeliana. Forse sono stati gli israeliani a buttare bombe assordanti dentro le finestre della moschea, il terzo luogo più santo dell’Islam dopo Mecca e Medina, e ad entrare armi in pugno.
I telefoni hanno registrato video di grande violenza con la polizia che per picchiare usava il calcio dei fucili. Quasi 400 palestinesi sono stati arrestati. Una decina i feriti ma nessun morto. Alle quattro del mattino, quando è stata chiamata la prima preghiera del nuovo giorno, la situazione sulla Spianata era tornata calma. Tuttavia in questo antico conflitto fra due nazionalismi, aggravato dall’uso improprio di Dio da entrambe le parti, episodi come questi di solito innescano una trama obbligata. Della quale almeno all’inizio i protagonisti sono i più radicali.
Da Gaza la Jihad islamica ha lanciato qualche razzo verso ill Sud d’Israele senza provocare danni. Scortato dalla polizia, un gruppo di coloni e di rabbini è salito a pregare sulla Spianata che secondo lo “status quo”, gli accordi presi per dare un ordine a questo caos, spetterebbe solo ai musulmani. Qualche giorno fa la polizia aveva fermato un gruppo di ebrei religiosi di una antica setta, che intendeva salire sulla Spianata e sacrificare un capretto in nome della santità della festa. Itamar Ben Gvir e Bezelel Smotrich, i due estremisti passati in pochi anni dalle prigioni israeliane al governo, hanno chiesto interventi radicali contro gli arabi, usando la forza delle armi.
Gli altri hanno cercato di cavalcare gli scontri e allo stesso tempo di riportare la calma. Nonostante la notte di violenze, il premier Netanyahu non ha convocato il governo: ieri sera nelle famiglie di fede ebraica si celebrava il Seder, la cena che apre i riti di Pesah; e Hamas a Gaza non ha reagito alle violenze nella moschea di al-Aqsa, limitandosi a minacciare ritorsioni in caso di nuovi scontri a Gerusalemme.
Ma come tutte le volte in cui il calendario lunare accende più del solito le violenze, molto è legato al caso o alle azioni degli estremisti. Due anni fa scoppiò una breve guerra a Gaza, a causa delle azioni della polizia sulla Spianata; l’anno scorso no.
Ieri sera, con la luna emersa dietro al Monte degli Ulivi e salita alta nel cielo terso di Gerusalemme, gli ebrei hanno celebrato il Seder chiusi nelle loro case. Davanti alla porta di Damasco, nella parte araba della città, la fine della giornata di digiuno e l’inizio dell’Iftar pieno di luci, erano stati meno festosi del solito.
La tensione continuerà a rovinare le feste degli uni e degli altri, per tutta la loro durata. Sparata a salve da un cimitero musulmano nella parte araba della città, la cannonata serale che diversamente da quella del mattino annuncia la fine del digiuno, per un attimo ieri sera aveva spaventato tutti.
Il Sole 24 Ore, 6/4/23