Leggere le notizie sulla prima pagina dei giornali israeliani è come vivere un incubo ogni mattina. Il leader di partito condannato tre volte per corruzione ed evasione fiscale che pretende di essere vicepremier; il deputato che propone l’introduzione della pena di morte per i terroristi arabi ma non per gli ebrei: per esempio i coloni che uccidono i contadini palestinesi o l’assassino di Yitzhak Rabin.
Si è anche costretti a leggere di un altro ministro che vuole escludere dai diritti civili ogni minoranza politica, etnica, religiosa e di genere del paese; e di un altro ancora che presenta una legge per mettere la Corte Suprema al servizio della maggioranza politica; o del ministro delle Finanze che ignorando la preoccupazione generale, promette di ebraicizzare tutti i territori palestinesi perché è Dio che lo vuole.
Anche le manifestazioni degli israeliani che si oppongono a tutto questo sono diventate un appuntamento fisso: ogni sabato sera, al finire dello shabbat, a migliaia s’incontrano per protestare contro il governo più reazionario e religioso della storia del paese. Prima solo a Tel Aviv, la metropoli più moderna, laica e democratica d’Israele, ora in molte altre città; prima alcune migliaia, adesso centinaia di migliaia. Qualche giorno fa in 100mila hanno sfilato davanti ai palazzi del potere di Gerusalemme.
Isaac Herzog, il presidente, era rimasto in silenzio per settimane: è considerato un politico stimato ma di scarso coraggio. Poi finalmente ha parlato, limitandosi a chiedere a maggioranza e opposizioni di aprire un dialogo sulle cosiddette riforme che la prima intende imporre al paese. Ma il problema, ormai, non è solo strettamente politico fra chi ha vinto e chi perso le ultime, ennesime, elezioni. Il paese è spaccato in due: fra due modelli di democrazia; due visioni del sionismo, il risorgimento nazionale ebraico non ancora concluso 126 anni dopo la visione di Theodor Herzl; tra un’idea di società aperta e una rigidamente teocratica.
La complessa società israeliana è sempre stata divisa, anche prima che nascesse lo stato nel 1948. Era il nemico alle frontiere che la rendeva compatta e determinata. Oggi alcuni di quei nemici esistono ancora. Ma la pace con un paese arabo dopo l’altro, e ora gli accordi di Abramo, rendono il pericolo esterno meno determinante di un tempo. Adesso il nemico della stabilità israeliana è interno.
L’Iran è una evidente minaccia. Ma l’enfasi con la quale Benjamin Netanyahu ne parla, rendendola più pericolosa di quanto effettivamente sia, rivela l’ansia di ritrovare un nemico esterno che distragga l’opinione pubblica israeliana e internazionale dai suoi discutibili programmi di politica interna e nei Territori occupati.
Più l’esecutivo nazional-religioso avanza la sua riforma che indebolisce l’equilibrio fra i poteri dello stato a beneficio della maggioranza politica, e la laicità dello stato a favore degli interessi dei partiti religiosi; più l’altra Israele protesta, scende in strada, sciopera. Dal governatore della Banca centrale agli industriali privati, dal mondo dell’hi-tech ai docenti e studenti delle università, dagli artisti al mondo dell’editoria; dai vertici militari al Mossad: tutti sottolineano la loro preoccupazione sulla tenuta della democrazia.
Un primo successo è stato ottenuto. Il presidente Herzog ha chiesto di rinviare l’approvazione delle leggi in agenda e di avviare un dialogo nazionale. L’altro ieri il governo ha deciso di rinviare il voto di quella che viene definita “Clausola derogatoria”, cioè la legge che consente alla Knesset, il Parlamento, di approvare con maggioranza semplice (61 deputati su 120) qualsiasi mutamento alla legge fondamentale e di respingere le obiezioni della Corte Suprema.
In sostanza si tratta della subordinazione dei principi fondamentali del sistema – le sue regole del gioco – a favore degli interessi politici. Fondando Israele, David Ben Gurion aveva deciso di non scrivere una Costituzione formale per non definire il ruolo della religione nello stato laico e socialista che stava nascendo. Ma il paese ha una Legge Fondamentale che regola la divisione dei poteri e alcuni essenziali diritti civili e umani. Ora questi diritti li vogliono determinare i religiosi. Più o meno come in Iran.
Isaac Herzog invita a un compromesso ora impossibile quanto un negoziato di pace fra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. I leader delle proteste di piazza esortano i leader dei partiti d’opposizione a “non avviare un dialogo fino a che non saranno ritirate tutte le leggi” liberticide. Le leadership della protesta e dell’opposizione partitica non sono le stesse per sottolineare quanto ampio e apolitico sia il dissenso nazionale: Sono molti gli elettori di destra che non vogliono rinunciare alle prerogative democratiche dello stato.
Ma Netanyahu non può archiviare il programma di governo. Se lo facesse perderebbe l’alleanza con l’estrema destra religiosa: per la conservazione del suo potere non ha alternative. “Netanyahu sta pericolosamente privilegiando i suoi angusti interessi politici e legali sugli interessi del paese”. Il giudizio non è del leader dell’opposizione Yair Lapid ma di Dick Durbin, presidente della commissione Giustizia del Senato americano, vecchio amico d’Israele e interprete del pensiero di Joe Biden. Se il governo compromette la democrazia d’Israele compromette anche l’essenziale aiuto economico e militare americano.
La società israeliana è soprattutto concentrata sui pericoli che corre la democrazia. C’è tuttavia un secondo aspetto, altrettanto pericoloso, delle presunzioni di questo esecutivo: la questione palestinese. Il governo ha deciso di costruire più di 7mila nuove case per i coloni israeliani nei Territori occupati.
Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, uno degli alleati più pericolosi di Netanyahu, vuole andare oltre: eliminare tutte le restrizioni alla presenza ebraica nelle aree palestinesi: “Lo dico ad americani ed europei: questa è la nostra missione”. E’ il contrario di ciò che vogliono a Washington e a Bruxelles per continuare a sostenere Gerusalemme; ed è ciò che i paesi arabi degli accordi di Abramo considerano antitetico alla loro pace con Israele. Nella sua storia contemporanea lo stato ebraico non aveva mai incontrato un nemico tanto minaccioso quanto se stesso.