Antony Blinken arriva in Israele. La visita era stata programmata diverso tempo prima dei dieci morti palestinesi di Jenin e dei sette israeliani a Gerusalemme, di ciò che è accaduto nei giorni precedenti a quei massacri, e di tutto ciò che ancora potrà succedere prima che il segretario di Stato americano atterri in questa che molti si ostinano a chiamare “Terra Santa”.
Le violenze di questi giorni hanno riportato parzialmente l’attenzione sul più lungo conflitto del mondo, quello fra israeliani e palestinesi che molti pensavano congelato. L’opinione pubblica internazionale era stata distratta dalla guerra in Ucraina e annoiata dall’insolubilità dello scontro mediorientale. In realtà in questi due giorni la violenza è stata solo più intensa del solito. Nel 2022 il bilancio delle operazioni israeliane nei Territori occupati – quasi sempre notturne – era stato di circa 200 palestinesi uccisi; nel primo mese del 2023 i morti sono già una trentina.
In alcuni casi gli attentati palestinesi sono stati particolarmente gravi contro i civili. Ma i soldati israeliani continuano a morire più per fuoco amico durante le esercitazioni, che per mano della resistenza palestinese. La guerra che conducono i giovani armati di Jenin e di altre città, sobillati dalla Jihad, è una inutile e disperata tauromachia. Per addestramento, intelligence e armamento, non possono competere con un esercito altamente tecnologico come l’israeliano.
L’attentato di venerdì sera davanti alla sinagoga non era il prodotto di una pianificazione ma dello smarrimento di un “lupo solitario”: aveva 21 anni, non era schedato dagli israeliani, forse voleva vendicare un lontano parente di 17 anni ucciso qualche giorno prima. Il giorno dopo a Gerusalemme un altro palestinese ha sparato a due israeliani: l’attentatore aveva 13 anni.
Recentemente l’Università di Tel Aviv e il Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah, hanno diffuso il loro ultimo sondaggio annuale sulla pace: l’Accademia è uno dei pochi settori dove ancora esiste una sana collaborazione. Il sostegno alla soluzione dei due stati, uno accanto all’altro, in pace e sicurezza, ha raggiunto il punto più basso nel ventennio da che viene condotta questa ricerca: due terzi dei palestinesi e il 53% degli israeliani si oppongono alla soluzione per la quale aveva lavorato il negoziato di Oslo. Sono soprattutto i giovani a negare gli uni le aspirazioni nazionali degli altri.
Sangue chiama sangue. La faida è una parte non indifferente di questo conflitto tra due risorgimenti nazionali, etnico e religioso. Serverebbero leader visionari. A Ramallah l’Autorità palestinese è una gerontocrazia incapace di pensare fuori da schemi superati da una nuova realtà sul terreno. Oltre ad aggredire la democrazia israeliana, il programma del nuovo governo di Bibi Netanyahu prevede di portare a un milione i 700mila coloni ebrei che vivono nei Territori palestinesi. Come scrive un giornale israeliano, Netanyahu è contemporaneamente il pompiere che dovrebbe contenere l’estremismo nazional-religioso dei suoi partner e il piromane che li ha portati al governo.
Antony Blinken questa palude la conosce già e non verrà a dire le cose che servirebbero per provare a prosciugarla. Solo l’autorevolezza americana potrebbe costringere gli avversari a riaprire un negoziato inesistente da un decennio. Ma Joe Biden ha già chiarito che non impegnerà gli Stati Uniti in un’impresa complicata e forse senza gloria finale, fino a che non finirà la guerra in Ucraina.
Allego un commento sull’Ucraina uscito la settimana scorsa sul Sole24Ore
IL MIO REGNO PER UN LEOPARD
Da undici mesi l’aggressore – la Russia – determina le regole della guerra all’aggredito – l’Ucraina – e ai suoi sostenitori: i paesi occidentali. Incapace di vincere, Putin bombarda con armi pesanti tutti gli obiettivi civili che può. Missili, droni e cannonate arrivano anche dalle regioni russe di confine, dalla Crimea, dalla Bielorussia. Ma guai se gli ucraini tentassero di colpire obiettivi militari in territorio russo e nella penisola di Crimea. Bombardare in Bielorussia sarebbe un automatico allargamento del conflitto. Per comprensibile realismo, fino ad ora gli occidentali si sono adeguati alle regole russe del gioco, obbligando anche gli ucraini a onorarle il più possibile.
Questo stato delle cose che sta contribuendo a fare dell’ucraino un conflitto statico e sanguinoso come sui fronti della Marna e del Piave nella Prima Guerra Mondiale, rivela le difficoltà occidentali di realizzare un equilibrio a prima vista inconciliabile: aiutare l’Ucraina possibilmente a vincere senza che la Russia perda. La prima ipotesi prevede un’escalation militare a favore di Kjiv, la seconda il suo contrario. Condurre una politica verso la Russia che preveda la deterrenza e contemporaneamente una finestra negoziale, è impossibile al momento.
Serve dunque una via d’uscita. Se ne è intensamente parlato al vertice Nato alla base Nato di Ramstein in Germania, e perfino al World Economic Forum di Davos dove la crisi ucraina ha quasi rubato la scena all’inflazione globale. Del resto la guerra ne è una delle cause. Tutto il dibattito è concentrato sul carro armato tedesco Leopard 2, simbolo delle armi offensive che Volodymyr Zelensky chiede e che gli occidentali sono riluttanti nel concedere.
I tedeschi lo sono per primi. E’ storicamente e moralmente comprensibile: il panzer è stata l’arma fondamentale della conquista nazista dell’Europa. Dell’ultima versione del Leopard sono dotati altri 13 paesi europei, determinati più di Berlino a passarli agli ucraini. Ma i contratti stipulati prevedono che per concedere a terzi quei carri armati, serve il consenso della Germania. Sembra tuttavia che con gli Abrams americani, anche questi come i Leopard più letali dei carri armati russi, e con altri sistemi d’arma, gli occidentali siano intenzionati a dare agli ucraini un vantaggio offensivo sul campo di battaglia.
Nel frattempo i due nemici si stanno quotidianamente massacrando nel cuore dell’Europa: offensive e controffensive per pochi isolati diroccati di villaggi sconosciuti, davvero come nelle battaglie di posizione del 1917. E’ prevedibile che fino a primavera e oltre, il conflitto di logoramento non cambi. Gli attuali fronti di guerra non possono essere trasformati in confini di pace. Gli ucraini vogliono andare oltre nella liberazione dei territori occupati dal nemico; i russi intendono almeno riprendere quelli persi nell’Est del paese dopo l’offensiva ucraina di settembre. Posto che a Vladimir Putin questo basti. Ma al momento sono impensabili sia la vittoria di uno dei belligeranti, che lo spazio per un compromesso diplomatico.
Gli ucraini hanno compiuto dei veri miracoli militari ma di più non possono fare, a causa delle dimensioni del paese e della sua popolazione. Geografia e demografia illimitate sulle quali invece la Russia può contare. Ma per raggiungere i suoi obiettivi le mancano lo spirito degli ucraini, la stessa qualità tecnologica e di fuoco delle armi occidentali che hanno in dotazione.
Il logoramento da entrambe le parti, in termini di uomini, di risorse economiche e militari, è sempre più grave. In una guerra statica come questa, le artiglierie sono l’arma più importante. Ivo Daalder, ambasciatore americano alla Nato durante l’amministrazione Obama, spiega che gli ucraini consumano in una settimana di guerra lo stesso numero di obici d’artiglieria che gli Stati Uniti producono in un mese. Il problema russo di rifornire il fronte è ancora più grave. Forse è questo che fermerà il conflitto se è vero che assomiglia alla Prima Guerra Mondiale. Nel 1918, all’improvviso, gli imperi centrali si arresero: non per aver perso una battaglia ma per aver fallito un’offensiva ed essere rimasti senza soldi.