Fu Robert McNamara, segretario alla Difesa di John Kennedy e Lindon Johnson a fissare l’unità di misura della distruzione e della pace nell’età nucleare: 400 testate. Sarebbero bastate per distruggere un quarto della popolazione sovietica e la metà della sua capacità industriale. Naturalmente il medesimo numero di bombe sovietiche avrebbe avuto lo stesso effetto sugli Stati Uniti.
In realtà in quegli anni i due paesi avevano insieme un arsenale da oltre 50mila ordigni. Tuttavia il concetto restava: distruzione ma anche comune capacità di prevenzione. Cioè deterrenza: quelle 400 testate misuravano il MAD, cioè la mutua distruzione assicurata. In inglese significa anche “pazzo” e probabilmente chi inventò l’acronimo scelse quella definizione di proposito: dalla sua nascita nel 1945 con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, c’è sempre stato un elemento di follia nell’età nucleare.
Tuttavia, almeno a partire dagli anni ’60 il mantra della pace fra Stati Uniti e Unione Sovietica è sempre stato il MAD. Nel 1985 a Ginevra, Ronald Reagan e Michail Gorbaciov diedero di quell’acronimo un significato più umano: “Una guerra nucleare non può essere vinta da nessuno e dunque non deve mai essere combattuta”.
Eppure oggi, nella guerra in Ucraina, l’arma atomica è tornata ad essere come il fantasma di Banquo: aleggia permanentemente sulla tragedia del conflitto. Vladimir Putin e il suo ex braccio destro Dmitrij Medvedev hanno ripetutamente minacciato di usarla. Nella ricca armeria atomica piena d’inventiva, esistono ordigni e vettori di ogni tipo. Quelle che il Cremlino minaccia di usare sono le atomiche tattiche, “da campo di battaglia”, potenti “solo” per distruggere una divisione corazzata o alcuni quartieri di una piccola città. Ma sufficienti per violare un tabù politico- militare, e aprire un’escalation che presto ignorerebbe i principi del MAD.
L’ammirevole processo di riduzione e controllo delle armi nucleari, che sovietici e americani iniziarono verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso, era già in grave crisi da molto prima dell’aggressione russa all’Ucraina. Della vasta rete di accordi e trattati dei decenni passati, l’unico ancora valido è il New Start che riduce a 1.550 per parte le forze strategiche dispiegate: quelle che possono essere lanciate in pochi minuti, e con qualcuno di più, raggiungere l’obiettivo dall’altra parte del mondo. Russi e americani lo hanno faticosamente rinnovato l’inverno passato, solo due giorni prima della sua scadenza.
C’è poi l’NPT, il Trattato sulla non proliferazione nucleare, l’accordo universale per ridurre – e un giorno inimmaginabile – eliminare l’atomica militare. La ciclica conferenza di revisione è stata rinviata per due anni a causa del Covid. Dovrebbe finalmente svolgersi ad agosto e potrebbe essere un’altra vittima della guerra in Ucraina.
Ma la minaccia russa e le risposte americane danno un’impressione sbagliata: che la questione nucleare continui a riguardare solo le due superpotenze storiche; che sia un affare del vecchio bipolarismo, come la battaglia per l’influenza sull’Ucraina fra mondo occidentale e sfera russa. Invece non è più così. C’è la Cina. Mentre Joe Biden e Vladimir Putin si confrontavano in Ucraina, prima e durante la guerra, Xi Jinping ne ha approfittato per far crescere la sua potenza. Questo aiuta a spiegare la parsimoniosa amicizia di questi mesi mostrata dalla Cina per la Russia.
Già diversi anni fa il partito aveva deciso per decreto che la definizione di “superpotenza” sarebbe entrata in vigore solo nel 2049, nel centesimo anniversario della Repubblica Popolare. Non si chiariva se questo avrebbe comportato anche un arsenale nucleare degno di quella funzione: le statistiche ufficiali ancora continuano ad attribuire alla Cina circa 350 testate di varia potenza.
E’ quello che gli stessi cinesi definivano “deterrenza minima”. Ma circa un anno fa i satelliti americani hanno scoperto che la Cina stava costruendo 120 silos per missili balistici intercontinentali nel deserto dei Gobi e altri 110 nella provincia dello Xinjiang. Inoltre, come i suoi due avversari nucleari, la Cina sta sviluppando la “triade”: la capacità di lanciare ordigni da terra, dal mare e dal cielo.
Secondo i calcoli degli esperti è prevedibile che già l’anno prossimo l’arsenale cinese possa raggiungere il migliaio di ordigni attivi. Pechino ha sempre affermato la politica del “no first use”: avrebbe usato l’atomica solo per scopi difensivi. Su questo russi e americani sono ambigui. Ma ritenendo di essere ancora distate dai suoi obiettivi, la Cina si è sempre rifiutata di partecipare ad ogni negoziato su controllo e riduzione degli arsenali.
“Avvicinandosi alla parità con le due attuali grandi potenze nucleari, la Cina sta per annunciare un cambio di paradigma molto meno stabile: un sistema nucleare tripolare” , scrive sulla rivista Foreign Affairs Andrew Krepinevich del Center for American Security. Prima della guerra in Ucraina, quello precedente a due aveva garantito 73 anni di stabilità, pur fra alti e bassi. Un sistema nucleare a tre farà altrettanto? La crescita dell’arsenale cinese potrebbe innescare una corsa al riarmo dell’India (ora 160 bombe), che causerebbe quella del Pakistan (165). O perfino spingere Giappone e Corea del Sud a diventare nucleari. Dopo Hiroshima non esserlo per i giapponesi è un mantra. Ma lo era anche la neutralità di Finlandia e Svezia.
Per molti anni il mantenimento della parità strategica fra Usa e Urss/Russia è stato il pilastro che ha retto la pace in questa età nucleare. Raggiuntala, i cinesi si adegueranno o pretenderanno d’instaurare un equilibrio a loro più favorevole? Gli esperti sono preoccupati. Dunque abbiamo il diritto di nutrire qualche apprensione anche noi.
Il Sole 24 Ore, 21/05/2022