Dice la Costituzione cinese voluta nel 1982 da Deng Xiaoping: il presidente “non servirà per più di due mandati”. Seguendone rigorosamente il dettato, ogni dieci anni il partito e lo stato – che a Pechino sono la stessa cosa – cambiavano il leader e l’intera classe dirigente. Era una forma di democrazia interna e generazionale che per oltre 35 anni era stata l’alterativa funzionante a forme più avanzate di sovranità popolare.
Lo scopo era duplice: sangue e idee nuove, un ricambio programmato generazionale per guidare il paese più popoloso del mondo; e la volontà di non ripetere le tragiche concentrazioni di potere come quelle di Mao e di Stalin, sostituendole con una stabilità istituzionale.
Negli anni Novanta, quando visitavo la Cina, regolarmente chiedevo ai miei interlocutori se insieme alle riforme economiche si stessero facendo strada anche quelle politiche, verso una democrazia più compiuta. Oggi in Cina e altrove, perfino in Europa, sarebbe una domanda fuori luogo. Ma allora avevamo l’illusione che il modello occidentale si sarebbe progressivamente imposto: non era la “fine della Storia” ma l’inizio di una storia diversa. I miei interlocutori non rispondevano mai che la Cina era già una democrazia “socialista” o “popolare” come invece mi dicevano all’Avana e a Caracas, o “islamica” come a Teheran. A Pechino ammettevano che non c’era democrazia, che occorreva tempo. Sarebbe venuta una volta realizzate le riforme economiche.
Quel tempo è finito con le nostre illusioni. Qualche giorno fa il partito ha annunciato che fra breve la Costituzione sarà cambiata per permettere a Xi Jinping di restare al potere anche dopo il 2023, quando scadrà il suo secondo mandato. Xi sarà come Mao.
Intanto la Cina è già cambiata. Nel 2017, secondo Freedom House https://freedomhouse.org/report/freedom-net/freedom-net-2017 , per il terzo anno consecutivo il livello di libertà su Internet nel paese è stato il peggiore del mondo dopo Siria ed Etiopia. Lo strumento che doveva essere di apertura e di libertà, in Cina è stato trasformato in un sistema di sorveglianza della società civile: un gigantesco algoritmo che fornisce un dettagliato profilo di ogni cittadino. Scrive Global Times, la voce del regime in lingua inglese: “Alcune parti essenziali del sistema di valori occidentale, stanno collassando. La democrazia, che è stata esplorata e praticata dalle società occidentali per centinaia di anni, si sta lacerando”.
Un professore dell’Università Cinese di Hong Kong spiega al Washigton Post che “la più credibile legittimazione per il Pc cinese come per Xi, è il nazionalismo”. Il nazionalismo, lo stesso pericoloso motore che qualche giorno più tardi a Mosca ha spinto Vladimir Putin ad annunciare i nuovi acquisti del suo arsenale nucleare: le armi definitive, le più veloci, le più potenti che nessuno può fermare.
In realtà quello tenuto per due ore al Cremlino era più un comizio che un annuncio: il 18 si vota e di certo Putin vincerà il mandato per altri sei anni: alla fine saranno 24 di potere assoluto. Ma il presidente vuole stravincere, battendo anche l’astensionismo. Non avendo risultati economici da presentare, il nazionalismo e la minaccia occidentale sono i pezzi forti per l’ennesima vittoria.
Il problema non sono le nuove armi annunciate con retorica brutalità. Anche dando per buono che esistano o siano in fase di realizzazione, non cambiano la mutua capacità di distruzione che esiste già. E’ il tono della minaccia, il livello della nuova sfida nucleare: “Nessun ci voleva ascoltare, adesso ci ascolterete”.
L’errore più grave dei tanti commessi dagli Stati Uniti quando ancora esisteva la possibilità di integrare la Russia in un sistema internazionale positivo, fu nel 2002 l’uscita dall’ABMT, il Trattato si missili anti-balistici. Era l’accordo che vietava la creazione di scudi spaziali o terrestri per impedire possibili attacchi nucleari. Uscendo dal trattato, gli Usa minacciavano di vanificare il potere di deterrenza russa e dunque l’equilibrio nucleare che permetteva a Mosca di essere una potenza al pari degli Stati Uniti: nelle armi convenzionali la Russia è di gran lunga inferiore. E’ da quel punto che Putin ha incominciato la sua guerra all’America e all’Occidente.
Per fermare questo cammino dovrebbe riprendere un dialogo. Ma se guardiamo lo stato delle cose nel mondo, l’impresa appare decisamente impossibile. Xi e Putin si armano (più discretamente, anche i cinesi incrementano e perfezionano il loro arsenale), assumono sempre più un profilo da satrapi asiatici: la democrazia occidentale per loro è una minaccia. A Washington, intanto, Donald Trump si isola, minando quotidianamente in parole e dazi, la forza più grande – più della forza militare – che l’America ha sempre avuto sugli avversari: la capacità di costruire sistemi di alleanza, proficui per lei e per chi si associava.
Neanche negli anni più cupi della Guerra fredda l’idea democratica è stata così a rischio. Lo studio di Freedom House che ho citato prima, rivela un dato ancora più drammatico dell’involuzione cinese: solo il 23% della popolazione mondiale usa Internet in piena libertà. Il 28% parzialmente, il 36 in assenza di libertà e il 13% non vi ha accesso.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/