Nella sua posizione strategica, il Newseum di Washington su Pennsylvania avenue fra la Casa Bianca e il Campidoglio, di fronte alla National Gallery, è più un monumento alla libertà che un museo del giornalismo. Sulla sua facciata è inciso il Primo Emendamento della Costituzione americana: “Il Congresso non promulgherà leggi….che limitino la libertà di parola o di stampa…”. Queste due sono fra le Five Freedoms affermate dallo storico emendamento: libertà di religione, di assemblea e d’istanza contro i torti subiti, sono le altre.
Al terzo piano del museo che fino al 2008 era ad Arlington, in Virginia oltre il Potomac, c’è la “World news gallery”. Una grande mappa del mondo è divisa in tre colori: verde, giallo e rosso indicano dove la stampa è “libera”, “parzialmente libera” e “non libera”. Al momento solo il 13% della popolazione mondiale fruisce di un giornalismo pienamente esercitato. E’ la percentuale più bassa degli ultimi 13 anni.
Per il paese cui appartengo e la professione che svolgo da 40 anni, ho trovato umiliante constatare che l‘Italia è l’unica in Occidente ad essere colorata di giallo. “Perché la stampa in Italia è solo parzialmente libera?” sente l’obbligo di spiegare Freedom House, responsabile della mappa, lei stessa stupita della conclusione della sua ricerca. “L’influenza politica sui media rimane una sfida seria”. Vengono ricordate “le strette relazioni tra imprese editoriali e politici, compreso l’ex primo ministro Silvio Berlusconi che possiede una delle più grandi broadcast company”. Come italiano e giornalista, aggiungerei il manuale Cencelli che ingabbia l’informazione Rai; o che il più autorevole quotidiano economico nazionale sia posseduto da Confindustria.
Con l’anno nuovo ci aspettano mesi difficili. Si vota a marzo ma è possibile che il risultato non faciliterà la formazione di un nuovo esecutivo. L’incertezza decisionale e lo scontro politico potrebbero occupare la scena per molto tempo. A meno di nuove grandi tragedie internazionali, la politica estera non sarà al centro del dibattito nazionale perché è una scarsa produttrice di consenso elettorale. Non è detto che sia un male, considerando quanto poco spazio – e con quanta superficialità – gli esteri appaiano nei programmi dei partiti. Riguardo alle formazioni più nazionaliste e populiste, che ora si candidano con serie possibilità al governo del paese, non siamo in grado di sapere – se vinceranno – come dovrà stare l’Italia in Europa; in quale modo affronteranno la questione dell’euro; quanto resteremo fedeli membri della Nato o se avremo derive putiniane.
Le incertezze dei mesi elettorali e post-elettorali, sommate all’attesa di sapere chi e come governerà, ci paralizzeranno per un bel po’. Intanto il resto del mondo è in movimento: più rapidamente e in modo più confuso che in passato. Come occidentale, credo che la principale fonte d’incertezza sia la velocità con la quale l’America si sta dimettendo dalla leadership mondiale: cioè dall’essere soggetto creatore di dottrine e comportamenti dai quali amici e nemici non potevano prescindere.
In “Pax Romana” (Yale University Press, NewHaven & London, 2016), lo storico Adrian Golsdworthy sottolinea la longevità dell’imperium: “La Sicilia fu la prima provincia di Roma e rimase sotto il suo controllo per più di 800 anni. La Britannia, una delle ultime acquisizioni, fu romana per tre secoli e mezzo”. Niente è durato così tanto “e si può ritenere che niente abbia avuto un impatto così grande sulla storia successiva” come il potere di Roma sul mondo.
Prima Barack Obama e con metodica rapidità Donald Trump, stanno smontando il primato americano in meno della metà di una generazione. E’ vero: è difficile paragonare il mondo del II secolo e quello del XXI. Tuttavia Vladimir Putin continua ad avere della Russia una visione imperiale, per quanto antiquata. Ancora di più Xi è convinto che il ritorno della Cina sulla scena globale non sia altro che la naturale restaurazione di un impero millenario, casualmente decaduto nell’ultimo paio di secoli. Parafrasando un sinologo americano, Lucian Pye, la Cina è una civiltà che si finge stato-nazione. Celeste o rosso, sempre d’impero parlano i cinesi.
Più delle mie irrilevanti conclusioni sul mondo che ci aspetta nel 2018, vorrei citare la sintesi di Bruce Jones, vicepresidente per la politica estera di Brookings Institution: “Quanto la Cina spingerà in avanti in Asia, e con quanta forza gli Stati Uniti arretreranno? Quanta instabilità la Russia cercherà di diffondere in Europa o in luoghi di conflitto in altre regioni; e gli Stati Uniti lavoreranno con l’Europa per contenere questi sforzi (o può l’Europa farlo da sola)? Quanta instabilità o presunta instabilità, gli Stati Uniti inietteranno in un Medio Oriente già turbolento; e quali altre potenze approfitteranno del riallineamento delle relazioni interstatali laggiù?”.
Ecco, questo è il 2018 che ci attende e per il quale la cara, piccola Italia dovrebbe cercare di attrezzarsi. Anche se l’Islam non è di moda e chi ne usa la lingua rischia di essere sospettato di fondamentalismo, credo non ci sia espressione migliore di questa: inch’Allah.
Buon anno.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/