Allego i miei commenti usciti oggi e ieri sulle pagine del Sole-24 Ore
A Mosca, dice Thomas Pickering, ambasciatore all’Onu per Bush padre e in Russia per Clinton, “c’è un nazionalismo al servizio di un leader, non un leader al servizio del nazionalismo”. Nel senso che è stato Putin a risvegliare il nazionalismo russo per conseguire il potere, non i nazionalisti a scegliere lui. Anche i russi non hanno una grande opinione degli americani: pensano che in troppi a Washington non smettano di coltivare una mentalità da Guerra fredda.
Probabilmente hanno ragione entrambi. Come ai vecchi tempi quando i due giganti nucleari, con i loro arsenali che messi insieme arrivarono una volta a quasi 80mila testate, si spartivano il mondo dall’America Latina all’Estremo Oriente. Il MAD, la mutua distruzione assicurata, secondo la quale chi scatenava per primo i suoi missili non avrebbe potuto impedire all’altro di lanciare i suoi, era una follia ma funzionava. C’erano piccole ma devastanti guerre regionali. Tuttavia era difficile che le due superpotenze ne perdessero il controllo, come sta accadendo nel Medio Oriente di oggi. Molto più di quanto non sia in Ucraina, nonostante gli alti e bassi politico-economici della questione.
Perché il problema principale è questo, nel Levante. Americani e russi non sono in grado di esercitare alcuna pressione efficace nei confronti dei loro clientes locali. In Ucraina si. Fatto il passo indietro, gli americani hanno lasciato gli egiziani a decidere tra i Fratelli musulmani e i militari; i turchi a coltivare il loro revanchismo ottomano; sauditi ed emiri a convincersi che il denaro sia sufficiente per fare della geopolitica religiosa. I russi sembrano essere più in controllo ma è un’illusione: sul breve iraniani, Hezbollah e gli altri sciiti hanno gli stessi loro obiettivi; ma a lungo termine le agende sono diverse. Dalle ambizioni nucleari, al futuro di Bashar, al controllo della regione per farne cosa, fino a Israele col quale Putin intrattiene eccellenti rapporti.
Dai teorici di estrema destra ed estrema sinistra del complottismo, gli Stati Uniti sono accusati di aver fatto tutto. In realtà il loro errore è piuttosto di non aver fatto abbastanza, meno di quanto avrebbero potuto, lasciando campo libero ad alleati pericolosi e immaturi che hanno devastato la regione. La differenza fra americani e russi è che i primi hanno fatto troppo poco, i secondi troppo. I primi non hanno armato i ribelli siriani, prevedendo che finissero nelle armi sbagliate ma lasciando che lo facessero turchi e sauditi; non hanno bombardato Bashar Assad quando ne fu scoperto l’arsenale chimico; e hanno continuato a distinguere fra bombardare l’Isis in Iraq perché non esistevano le implicazioni politiche collaterali che invece c’erano in Siria, dove non hanno bombardato. I russi si sono buttati nella rissa a testa bassa, ottenendo per questo più considerazione generale e qualche risultato in più.
Questo impegno russo nasconde anche ambizioni politiche ma c’è una ragione pratica che le batte tutte. Negli Stati Uniti la questione di foreign fighters e lupi solitari, esiste ma è relativa. Con l’Isis combattono invece 2.500 giovani russi. Il 14% della popolazione in Russia è musulmana: fra russi e minoranze etniche immigrate dalle ex repubbliche sovietiche asiatiche e del Caucaso. Regioni dalle quali provengono 7mila foreign fighters.
Se dunque guardiamo bene fra le sinuosità e gli arabeschi della regione, scopriremo che in Medio Oriente gli americani hanno molte più cose in comune con i russi di quante non ne abbiano con i sauditi, i turchi o i qatarini: per mezzo della Nato o delle immense basi militari nel Golfo, l’unica cosa che li lega all’America è la sicurezza. Non hanno alcuna intenzione di imitarne il modello socio-economico e politico. E i russi hanno potenzialmente più cose da dirsi con gli americani che con l’Iran o i guerriglieri Hezbollah del Libano Sud.
La via d’uscita è che trovino insieme le ragioni per un direttorio comune nella regione. Putin, come diceva Pickering, non è un modello di democrazia. Ma se l’Isis è una specie di nazismo dei nostri tempi (in realtà infinitamente meno pericoloso), gli americani hanno già vinto una guerra accanto a Stalin, un russo molto più complicato di Putin.
La difficoltà non è raggiungere un’intesa russo-americana, combinando insieme mutuo interesse e ambizioni concorrenti. Ma che i due paesi la trovino con i loro clientes regionali. Se non lo facessero, se non iniziassero con loro la ricostruzione di un nuovo Medio Oriente, commetterebbero lo stesso errore di inglesi e francesi, che giusto cento anni fa disegnarono con arrogante realismo la regione oggi morente. A un colonialismo ne seguirebbe solo un altro.
IL RUOLO DELL’ITALIA
Partecipare ai bombardamenti contro l’Isis in Iraq, e ormai anche in Siria, o no? Rimanere nelle retrovie o raggiungere la prima linea con quelli che saranno gli alleati di una battaglia sempre più imminente? Gli italiani, come gli alleati, ancora non lo sanno.
Investimenti per la sicurezza interna e per la cultura. Almeno 500 milioni di euro per la difesa, pensati con una visione “strategica”: cioè armi per un domani prossimo, non l’oggi. Posti di lavoro per i giovani, periferie da far rinascere. Il discorso del Presidente del Consiglio nella sala degli Orazi e Curiazi dove si firmarono i Trattati di Roma ed è nata la globalizzazione italiana, è suggestivo. Tocca le fonti della minaccia manifestatasi a Parigi.
Ma oltre al fronte interno ce n’è uno internazionale sempre più impellente. E tradizionale: bombardieri, armi, soldati che avanzano conquistando territorio. A quest’altro aspetto della lotta al terrorismo, Matteo Renzi non da’ una risposta. C’è la dichiarazione di un paio di giorni prima: dopo la catastrofe della liberazione della Libia, l’Italia non parteciperà ad avventure militari che non abbiano un chiaro obiettivo politico. L’aereo russo abbattuto dai turchi in un traffico aereo il cui congestionamento è la metafora del Medio Oriente di oggi, da’ qualche ragione a Renzi. Ma il caso siriano è anomalo: fino a che non verrà tolto di mezzo lo stato islamico, non sarà possibile capire come pacificare la regione.
La questione non è solo il destino di Bashar Assad, se ci saranno elezioni né chi governerà a Damasco. In gioco c’è soprattutto il futuro della regione per come geograficamente la conosciamo, l’eventualità di un cambiamento delle frontiere, la creazione di una struttura di sicurezza collettiva fra i paesi mediorientali. Nessuno sa quando, ma a quel grande negoziato si dovrà arrivare. E, come in ogni tavolo di pace da Westfalia a Yalta, partecipa chi ha combattuto per arrivarci. Gli altri, gli sconfitti, i sostenitori e gli osservatori, hanno posti in seconda fila. Se il Mediterraneo e il Medio Oriente sono prioritari per l’Italia, come ripetono sempre più insistentemente il Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, conviene esserci.
L’intervento militare di un paese democratico richiede il consenso delle Camere, come intende fare David Cameron a Londra. Ed è presumibile che, se sarà proposto anche al nostro Parlamento, l’iter sarà complesso. L’altro ieri all’assemblea del Pd, Renzi sosteneva che la politica estera non è più una materia per specialisti: la globalizzazione e la realtà della cronaca ci impongono di considerarla un prolungamento della politica interna. A condizione che la si impari a conoscere. Già alla fine del XVIII secolo Thomas Jefferson ricordava che una democrazia ha bisogno di un elettorato informato. In Italia il problema è che per cominciare lo sia la classe politica: che di questioni internazionali parla poco e quando lo fa, è un peccato che l’abbia fatto per la povertà dei contenuti.
Dopo la vicenda di Parigi perfino la destra nazionalista francese, che anche nel male ha una tradizione di patriottismo più solido, ha dato una lezione di educazione civica a una buona parte delle nostre destre. Anche loro detestano Hollande come i nostri Renzi, ma questo era il momento dell’unità nazionale. E’ una parte di quella conoscenza necessaria della quale parlava Jefferson.