Cantami o Diva del Vladimiride Putin l’ira funesta che infiniti addusse lutti ai nemici dell’Isis. Come Achille offeso da Agamennone si rifiuta di tornare sul campo di battaglia, rendendo difficile la guerra degli achei contro Troia, così l’interventismo di Putin in Siria complica la lotta allo stato islamico. Proponendosi come risolutore, Putin rende solo più intricato il problema. Con il pretesto di sconfiggere il califfato, la Russia promuove solo la sua agenda nella regione. Come i sauditi, gli iraniani, i turchi, gli israeliani…
Allego gli articoli sul tema pubblicati in questi giorni sulle pagine del Sole 24 Ore.
Il realismo cinico del Cremlino, 29/9/2015
L’Italia, dice Matteo Renzi a New York, non parteciperà ai bombardamenti contro l’Isis in Siria perché attualmente un intervento militare è privo di orizzonte politico.
Non bisogna ripetere, sostiene, gli errori commessi in Libia. Ragionamento teoricamente corretto ma superato dai fatti: Vladimir Putin ha spostato così in alto l’asticella della tragedia siriana da rendere irrilevante non solo la riflessione del presidente del Consiglio, ma anche i bombardamenti francesi iniziati due giorni fa e quelli di americani e inglesi in corso da molto più tempo.
Il paragone con la Libia non è calzante. Allora, nel marzo 2011, francesi e inglesi forzarono la mano agli americani – molto più che agli italiani – bombardando per far cadere la dittatura al potere. In Siria i suoi bombardieri e gli elicotteri da combattimento il presidente russo li alza in volo da aeroporti sul suolo siriano, rinforza una vecchia base navale sul Mediterraneo e fa marciare su Latakia la sua fanteria per difendere la dittatura al potere.
È una differenza di non poco conto che rende obsolete tutte le riflessioni e i tentennamenti euro-americani sul cosa fare in Siria. Per noi quel Paese è diventato una gigantesca esitazione amletica. È evidente che l’Isis sia un mostro al quale bisogna tagliare la testa al più presto: il New York Times scrive che nel 2015 più di 30mila giovani musulmani di tutto il mondo sono andati ad arruolarsi in Siria. Ma se si elimina l’Isis, si aiuta Bashar Assad a restare al potere: lui che è uno dei responsabili della guerra civile. Il regime è laico (nel mondo arabo la definizione è da usare con cautela), non mostra sul web i cento modi più sadici per uccidere l’avversario. Ma massacra la sua gente non meno del califfato. I siriani che vediamo arrivare sulle nostre coste e nelle stazioni ferroviarie dell’Est Europa fuggono dai massacratori dell’Isis quanto dal regime di Assad, una specie di “macellaio buono” di questa storia.
Dubbi di questa natura Putin non se ne pone. Il suo è realismo: c’è pure dell’altro ma è innegabile che sia un realismo quasi kissingeriano. Negli anni ’70 anche alla Cia sapevano che i dittatori dell’America Latina erano dei poco di buono ma erano i loro poco di buono: la versione originale di Langley era molto più colorita. Ora in Siria è dei russi. È la teoria del male minore, in questo caso il regime di Damasco, che assume anche le sembianze dell’utile strumento per far rientrare da protagonista la Russia nel grande gioco del Medio Oriente dal quale era stata esclusa durante il rapido disfacimento dell’Urss.
Probabilmente Vladimir Vladimirovich è anche un genio politico. Ma non è difficile riuscire a esserlo se non si devono fare i conti con un’opinione pubblica. La cautela di Renzi dipende anche dalla certezza che un maggiore impegno italiano in Siria dividerebbe il Paese. Se vi capitasse di leggere La Padania, Il Giornale e Il Manifesto, scoprireste che di Putin destre e comunisti scrivono con lo stesso entusiasmo. Ma anche questa curiosa alleanza si frantumerebbe all’idea di mandare gli alpini a combattere l’Isis. Così Barack Obama con un’America – eccetto i numerosi, muscolosi e superficiali candidati alle primarie repubblicane – che non dimentica e non vuole ripetere l’errore iracheno.
In Russia un decreto presidenziale ha trasformato in un segreto di Stato la morte in missione dei militari. E l’ansia di tornare a essere un impero questa volta senza zar né ideologia, ha portato a una revisione così radicale della storia da rivalutare la soppressione della Primavera di Praga del 1968 che nel nuovo immaginario russo fu un complotto americano come le primavere arabe.
Ma se è Obama ad aprire all’Iran, a finanziare la difesa dell’Iraq, a rifiutare le armi decisive ai ribelli in Siria per impedire che cadano nelle mani dell’Isis; e poi è Putin a firmare un accordo di collaborazione contro l’Isis con iraniani, iracheni e siriani, significa che il sistema decisionale americano è paralizzato da veti, alleanze e un politicamente corretto sempre più insostenibili; e quello russo alla fine è un sistema più scorretto e cinico ma agile ed efficace. Eppure l’esistenza dell’Isis non è solo una minaccia: è anche un’opportunità. Ammettendo sul podio dell’Assemblea Generale Onu, che «i pericoli di oggi ci stanno spingendo verso un mondo più oscuro e disordinato», Obama ha l’obbligo di trasformare l’incontro con Putin a New York nel cantiere di un nuovo ordine.
Ugo Tramballi
Se Israele ritrova l’amico Putin, 2/10/2015
Senza mai riuscire ad ottenere giustizia, fino a qualche tempo fa era almeno occasione per grandi discorsi e retoriche promesse. Pressata da emergenze più immediate e pericolose, questa volta l’assemblea generale dell’Onu l’ha ignorata: niente Palestina in una regione nella quale era una volta la madre spesso pretestuosa di tutti i conflitti.
Non ne hanno fatto cenno Barack Obama né Vladimir Putin. Il quotidiano israeliano Haaretz ha ricordato che nel suo discorso al palazzo di vetro del 2010, il presidente americano aveva ripetuto 22 volte il nome di Israele e 20 quello di Palestina. Zero l’altro giorno. Perfino re Abdullah di Giordania ha ignorato i vicini fratelli: ha ricordato gli scontri quasi quotidiani a Gerusalemme senza mai dire “Palestina”, come se la Spianata del tempio fosse un affare transgiordano e non cisgiordano. A parte Abu Mazen, come era ovvio, e ieri anche Bibi Netanyahu che ha cercato di interpretare un ruolo che non conosce – quello dell’uomo di pace – solo la brasiliana Dilma Rousseff ha ricordato che l’antica questione resta irrisolta. La prima bandiera palestinese issata mercoledì in cima al pennone dell’Onu, è stato un episodio commovente ma irrilevante nella narrativa internazionale di queste settimane.
Il silenzio non serve ai palestinesi ancora in attesa di giustizia ma fa molto comodo a Bibi Netanyahu, il cui governo vorrebbe veder sparire dai promemoria internazionali il ritiro israeliano dai territori occupati. Ora c’è tempo solo per Siria, Isis, Putin e Obama. Tuttavia, di ciò che gli sta accadendo attorno, Israele non è un occasionale testimone ma un interessato protagonista. Non casualmente, i primi ad essere informati dell’inizio dei bombardamenti russi in Siria, sono stati gli israeliani. Solo dopo anche gli americani.
La vulgata dei sostenitori di Putin vuole che il presidente russo fermerà il “complotto sionista”. Chiaritosi a Mosca la settimana scorsa per evitare scontri nei cieli siriani, per Bibi Netanyahu la presenza militare russa è invece una garanzia: Hezbollah non cercherà più di provocare Israele. Metterebbe in imbarazzo i russi, necessari alla sopravvivenza del regime siriano e delle milizie di Hezbollah.
A dispetto dei mutamenti politici in Medio Oriente, della forza crescente del califfato, della guerra civile in Siria e dei terroristi nel Sinai, le priorità della sicurezza israeliana non sono mutate. Per i responsabili militari e dell’intelligence, il primo pericolo rimane l’Iran. Seguono Hezbollah e Hamas. Solo alla fine di questo elenco appare un generico “arcipelago islamista” che Israele non percepisce come una minaccia imminente.
L’arrivo dei russi, dunque, non è una rivoluzione geopolitica o strategica per Israele. Al contrario, la loro presenza riduce il pericolo di Hezbollah e contribuisce a impedire che cresca dell’Isis. Gli Stati Uniti resteranno la prima e insostituibile garanzia di sicurezza per Israele durante tutto questo secolo. Ma ai tradimenti americani sul nucleare iraniano e all’ostilità che Barack Obama ha sempre mostrato verso Netanyahu, subentra Vladimir Putin, una specie di amico ritrovato.
Lo Stato ebraico è stato fondato da socialisti russi e polacchi anche loro – a quei tempi – parte dell’impero zarista. Quasi la metà della popolazione ebraica d’Israele è di origini russe: di prima, seconda e terza generazione. Dopo l’ebraico, il russo è la lingua diffusa quanto l’inglese: città come Katzrin sul Golan o Ashdod sul Mediterraneo, parlano solo russo. Russe sono le atmosfere della poesia e della produzione dei cantautori israeliani; sovietiche erano le spartane abitudini culinarie, prima che una parte importante d’Israele sviluppasse una cultura epicurea del cibo. Quando nacque nel 1948, Stalin riconobbe Israele prima di Truman perché credeva che in Medio Oriente stesse nascendo un paese socialista satellite dell’Urss. E oggi, con il consenso israeliano, Putin aspira ad essere il difensore della cristianità ortodossa di Terra santa, come era lo zar, cento anni fa.
Ugo Tramballi
La Grande Russia riparte dal Medio Oriente
Con una casualità cui non crede nessuno, immediatamente dopo l’inizio dei bombardamenti russi sulla Siria si riapre l’agenda ucraina. O meglio, è più giusto il contrario. Il vertice parigino, seguito di quello a Minsk, era previsto da tempo: sono i bombardamenti a essere iniziati con diplomatica coincidenza tre giorni prima della ripresa della trattativa fra europei, russi e ucraini.
Ha l’aria di una concomitanza cercata. Davanti ad Angela Merkel, François Hollande e Petro Poroshenko, Vladimir Putin non si presenta più come il presidente russo preoccupato per i suoi confini occidentali ma come un leader globale con cose da dire e da fare in tanti scacchieri, contemporaneamente. Ieri perfino le operazioni militari russe sembrano essere diventate un po’ più precise, incominciando finalmente a colpire l’Isis e non solo gli oppositori più moderati al regime degli Assad.
Secondo una lettura dell’intervento russo nel Levante, l’obiettivo prioritario di Putin è l’Ucraina, non la Siria; non la sopravvivenza di Bashar Assad ma il futuro dei russi nel Donbass; impedire che l’Ucraina entri nell’Unione Europea e nella Nato, trovando invece un modo per finlandizzarla, congelandone cioè il futuro geopolitico per qualche anno; bloccare il dispiegamento del sistema missilistico anti-missile, uno scudo alle porte della Russia; riprendere la trattativa sulla riduzione degli arsenali nucleari o ricominciare, al contrario, una pericolosa corsa al riarmo.
È così: l’intervento in Siria è un modo efficace per sponsorizzare qualcosa che conta di più, l’Ucraina. Tuttavia il disegno di Vladimir Putin è molto più vasto. L’Ucraina e tutto ciò che ne consegue, è fondamentale ma non fine a se stessa. Insieme al nuovo interventismo mediorientale, è il balzo in avanti per tornare al più presto a essere l’altra grande potenza globale insieme agli Stati Uniti, in ogni regione del mondo: una nuova Unione Sovietica senza gli orpelli ideologici del comunismo e i sensi di colpa della perestroika. È il segno di un contrappasso se nel 1990 il primo segno di arretramento della potenza sovietica si sia manifestato in Medio Oriente, quando Gorbaciov non si oppose alla liberazione del Kuwait e si escluse dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti; e oggi la Velikaya Rossia, la Grande Russia ambiziosa ricominci dal Medio Oriente.
Si può chiamare grande disegno. Ma anche questo trionfale dinamismo ha qualche controindicazione. Le incertezze e i ripiegamenti di Barack Obama hanno aperto una prateria alle ambizioni di Putin. Ma fra un anno ci sarà un altro presidente a Washington e non è detto che la sua politica estera sia di basso profilo come quella del predecessore. La seconda avvertenza sono le paludi del Grande Medio Oriente nel quale sono cadute tutte le potenze che hanno creduto di avere una soluzione. Russia compresa, uscita a pezzi dall’Afghanistan meno di una generazione fa. Le marce trionfali nella regione, come sembra essere anche quella di Putin, sono solo un inizio. Non segnano mai la fine di un’avventura.
Ugo Tramballi