Una minaccia incombe sull’intero Occidente. Non è l’Isis e nemmeno l’armageddon nucleare; non è il rallentamento della crescita cinese e degli altri Brics né l’effetto sui mercati mondiali provocato dai truffatori tedeschi della Volkswagen. E non è nemmeno Putin con la sua fissazione di Grande Russia, anche se questo pericolo ha molto di putiniano. La nostra nuova “minaccia esistenziale” – come direbbero gli israeliani – è Donald Trump.
E’ tutto da vedere che alla fine sia lui il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. E se anche lo diventasse, sarebbe il più debole e improbabile dei candidati dai tempi del segregazionista Barry Goldwater: elezione del 1964, vittoria di Lindon Johnson. Ma il pericolo c’è e i sondaggi sulle primarie del partito repubblicano continuano a confermare la forza dirompente e decisamente brutale di Trump.
Vi risparmio le ragioni sociologiche tutt’altro che trascurabili del suo successo, simili a quello dei populisti di ogni paese occidentale: la crisi economica, la crisi della politica, l’immigrazione, la crisi d’identità fra localismo e globalizzazione. Quello che conta è che, per quanto remota, esiste una possibilità che fra poco più di un anno gli Stati Uniti e dunque il sistema democratico occidentale, siano guidati dal trumpismo.
Ributtante a partire dall’onomatopea – trumpismo è ai limiti della pernacchia – si possono tuttavia indicare alcuni valori portanti di questa nuova ideologia dell’improbabile. “Amo i sauditi. Fanno un miliardo di dollari al giorno: in qualsiasi momento abbiano un problema, noi mandiamo laggiù le navi”. Oppure: “Hey, non dico siano tutti stupidi, mi piace la Cina. Ho appena venduto un appartamento da 15 milioni di dollari a uno venuto dalla Cina: come potrebbero non piacermi?”. E ancora: “Sono stato a Mosca due anni fa e le posso dire che ti puoi mettere d’accordo con i russi….Penso che mi metterò d’accordo molto bene con Vladimir Putin”.
Questo è un blog di politica estera, mi limito quindi alla visione internazionale del trumpismo. Tralascio i commenti sul musulmano Barack Obama, sui neri e il giudizio sulle donne per il quale un giornalista del New York Times ha coniato il neologismo “Trumpusconi”. In realtà, se mai Donald Trump diventasse presidente, sono convinto che Stati Uniti e Russia vivrebbero una nuova stagione di disgelo fino a raggiungere l’amicizia. Se solo Trump non pretende di restaurare la solitaria potenza globale americana ma si limita agli affari, lui e Putin diventeranno come fratelli. Hanno la stessa visione di capitalismo famelico, personalistico e senza controlli democratici.
Ma se anche Trump vincesse solo le primarie repubblicane, sarebbe una tragedia per il partito che non fu solo di George Bush il giovane, di Dick Cheney e Paul Wolfowitz, ma soprattutto di Abramo Lincoln, il presidente del discorso di Gettisburg. “Four score and seven years ago our fathers….”. In 272 parole Lincoln seppe descrivere la disperazione di un paese passato dalla guerra civile e l’orgoglio di una resurrezione nazionale. Solo Dio fu più incisivo e succinto, dettando sul monte Sinai i Dieci comandamenti: 163 parole nella versione della catechesi cattolica.
Perché il problema dei repubblicani (e dell’Occidente) non è solo Donald Trump. Il partito di George Bush padre, che seppe gestire la caduta dell’Urss senza umiliare la Russia, è oggi un insieme di pericolosi trumpismi. Sull’ultimo numero di Foreign Affairs Marco Rubio, il più giovane e apparentemente il più brillante della pletora di candidati repubblicani, ha spiegato quale sarà la sua politica estera, una volta diventato presidente. “Restoring American Strength” è il significativo titolo. Rimettere con le buone o le cattive Putin al suo posto di gregario, prendere a bastonate i cinesi, mandare i marines a eliminare l’Isis, bloccare l’accordo sul nucleare iraniano. Pericolosi dilettanti allo sbaraglio.
Come Rubio sono quasi tutti gli altri candidati, incapaci di dire qualcosa di più profondo di uno slogan elettorale. Solo restaurazione della potenza militare, muscoli, armi. Come può essere credibile un partito che discute ancora di una falsità come la supposta fede musulmana di Barack Obama? In confronto gli 85 milioni di emendamenti di Calderoli sono un gioco da parco a tema disneyano.
Giovedì, sul balcone del Campidoglio John Boehner, il presidente repubblicano della camera dei rappresentanti, falco ma non abbastanza per il partito, piangeva come un chierichetto pentito accanto al papa. Sognare un miracolo è umano. Ma non ci contate. L’esempio molto vicino alla realtà del repubblicano di oggi è Donald Trump. Sotto la pressione della maggioranza sempre più estremista del partito, ieri Boehner ha rassegnato le dimissioni.