Il mese di digiuno del Ramadan e l’inizio dell’Eid al-Fitr, la festa più importante dell’Islam (a proposito, Eid mubarak a tutti gli amici musulmani), non sono sufficienti per spiegare il silenzio tombale dei Paesi sunniti. Bibi Netanyahu sbraita e mobilità l’intero Partito repubblicano americano come fosse cosa sua. Intanto sull’accordo Iran-Cinque più uno non arrivano commenti dall’Arabia Saudita, dagli Emirati, dall’Egitto dalla Turchia. Niente, buone feste.
E’ noto che il mondo sunnita non sia molto distante dalle opinioni israeliane sulla fine delle sanzioni all’Iran. Ma quel silenzio rende ancora più visibile, e più solitaria, la posizione di Bibi Netanyahu. Perché tanta violenza verbale, perché un rifiuto così totale, perché questa nevrosi per l’Iran: l’unico stato della regione la cui legittimità non è messa in discussione dall’interno; il più moderno fra i paesi di quell’area; il solo con un parlamento reale che fra l’altro riconosce una quota di seggi alla comunità ebraica iraniana?
Anche se gli israeliani praticano molto poco questo esercizio, mettersi nei panni dell’altro aiuta sempre a capire. E se vogliamo capire il perché della posizione israeliana, dobbiamo ascoltarli. Nonostante l’Isis sia alle porte d’Israele al Nord nel Golan, a Sud nel Sinai e probabilmente già a Gaza, la classifica delle minacce alla sicurezza nazionale resta quella di sempre: nell’ordine Iran, Hezbollah libanese, Hamas e solo poi una non meglio identificata “galassia jihadista”.
Sul piano militare e strategico non fa una grinza. Le qualità iraniane che ho citato poco fa hanno un altro lato della medaglia: l’Iran ha forze armate, è un grado di mobilitare un milione di uomini, finanzia Hezbollah e Hamas che continuano a invocare la distruzione d’Israele. Fino a qualche tempo fa anche l’ex presidente Ahmadinejad non perdeva occasione di farlo. Come gli attuali vertici religiosi e militari. L’Isis non ha queste “qualità”, come minaccia esistenziale a Israele non vale il potenziale iraniano.
Ma questa è solo una parte – sia pure importante – del problema israeliano. Quando dice che la reazione di Netanyahu è “grossolana”, il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier non si riferisce a questa verità ma all’altra parte degli accordi di Vienna. Ad eccezione di una guerra fra Israele e Iran, una ripresa del conflitto rimasto in sospeso nel 2006 con Hezbollah e una ennesima operazione militare su Gaza, la sola alternativa è il negoziato.
Nessuno fra i 5+1 (Usa, Russia, Cina, GB, Francia più Germania con l’aggiunta della Ue) s’illude che il compromesso sul nucleare iraniano porti automaticamente al disarmo di Hezbollah e alla fine del sostegno ad Hamas. Ma la fine delle sanzioni, la crescita economica, la riapertura alla globalizzazione, sono una possibilità perché gli iraniani scelgano la moderazione alla militanza. Chiunque sia stato in Iran negli ultimi trent’anni ha avuto modo di notare che agli iraniani di Israele non importa nulla: sotto la crosta della propaganda di regime non esiste una reale mobilitazione anti-sionista. C’è molta più ostilità nelle opinioni pubbliche sunnite in Egitto e Arabia Saudita, i “moderati” con i quali il governo israeliano vorrebbe fare “un’alleanza d’interessi”.
Israele ha sempre avuto la necessità di individuare un nemico (non è mai stato difficile trovarne), enfatizzandone la minaccia: prima Nasser, poi Arafat, Saddam Hussein e ora l’Iran. In alcuni casi (l’Olp) veniva decretato per legge il divieto di parlare con l’avversario, perdendo anni di possibile negoziato. Per ragioni ideologiche, soprattutto Menahem Begin, Yitzhak Shamir e ora Bibi Netanyahu, hanno sempre preferito isolare Israele dietro il “muro di ferro” della sua forza militare (la definizione fu di Ze’ev Jabotinsky, il sionista revisionista para-fascista), piuttosto che rischiare un negoziato.
E’ difficile affermare che Sati Uniti ed europei siano anti-semiti; che lo sia il governo russo con un Israele abitato per metà da ebrei di origine russa; o che la Cina sia ostile, ora che ha rapporti intensi e proficui con Israele. L’arma di distruzione di massa che ora Bibi vuole usare contro gli accordi di Vienna sono il Partito repubblicano, pronto a qualsiasi cosa serva ad opporsi a Barack Obama, e la ricchezza della lobby ebraica americana. Quando ci lamentiamo della qualità dei nostri deputati, pensiamo a quelli americani, avidi di finanziamenti elettorali. Il meccanismo elettorale democratico che porta all’elezione di un presidente viene vanificato da quello dei finanziamenti illimitati: la campagna deve ancora cominciare e Jeb Bush ha già raccolto 114 milioni di dollari, Hillary Clinton 63. Certo è un sistema trasparente ma se regalo milioni al mio candidato, mi aspetto che in cambio faccia quello che voglio.
Allego due articoli usciti sul Sole-24 Ore. Il primo dedicato al rischio di proliferazione nucleare in Medio Oriente, dopo gli accordi di Vienna; il secondo è un reportage da Israele.
Un’opportunità per costruire un sistema di sicurezza collettiva per il Medio Oriente o un’altra causa d’instabilità dopo le guerre civili, lo scontro religioso e geopolitico fra sciiti e sunniti, l’Isis e la disgregazione delle vecchie frontiere? La prima preoccupazione dell’accordo di Vienna è un’altra: che possa avviare una incontrollabile proliferazione nucleare nella regione.
La minacciosa richiesta, qualche tempo fa, era stata avanzata dal principe Turki al-Faisal, l’ex capo dei servizi segreti sauditi: qualsiasi cosa concederete agli iraniani, la vogliamo anche noi. Ciò che in lunghi anni di negoziato Teheran ha ottenuto, è di poter sviluppare un programma nucleare civile. L’Npt, il Trattato sulla non proliferazione, garantisce questo diritto a tutti i Paesi firmatari: l’Iran è fra questi. Ma «a dire la verità i programmi nucleari civili sono stati usati come copertura per l’acquisizione di armi atomiche», scrive il Bulletin of the Atomic Scientists di Chicago. «Il ciclo di combustibile per una centrale nucleare fornisce tecnologia che fornisce il materiale necessario per costruire armi nucleari». È una tentazione forte. Tutti i proliferatori illegali (perché non hanno aderito all’Npt o lo hanno violato) sono diventati potenze atomiche incominciando da programmi civili: Israele, India, Pakistan, Corea del Nord. Anche l’Iran di Ahmadinejad ci stava provando.
Per sviluppare un programma nucleare occorre molto denaro – fra i 5 e i 10 miliardi di dollari – e un alto livello tecnologico. L’Arabia Saudita, il principale indiziato, abbonda del primo ma non ha la manodopera preparata per occuparsene. Con l’aiuto della Corea del Sud, il primo reattore nucleare dovrebbe diventare operativo non prima del 2022. Se alla fine si sentissero umiliati dall’accordo di Vienna, con i soldi i sauditi potrebbero comprare il prodotto finito dal Pakistan: a suo tempo il programma nucleare pakistano, la prima “bomba islamica”, era stato finanziato anche da Riad. Tuttavia un ordigno nucleare non è come un bombardiere supersonico, non si costruisce per l’esportazione ma per ambizione nazionale. «Mangeremo erba, diventeremo anche affamati, ma avremo la nostra bomba», diceva Zulfikar Ali Bhutto, il premier che avviò il programma pakistano.
Nonostante le difficoltà causate dalla guerra afghana, Islamabad ha bisogno dell’alleanza con gli Stati Uniti che non gradirebbero un baratto di questo genere. Le stesse considerazioni che non possono evitare i sauditi, la cui sicurezza nazionale è garantita dall’America. Alleati in polemica ma sempre alleati: e la parte più forte del sodalizio rimane quella americana.
Così la Turchia, un altro grande Paese della regione con tentazioni nucleari. È dal 1952 che i turchi beneficiano dell’ombrello nucleare che gli Stati Uniti assicurano a tutti i membri della Nato: la ragion di stato rende improbabile una bomba turca. In Anatolia saranno costruite due centrali a partire dal 2022, una con Rosatom russa e l’altra con un consorzio franco-giapponese. Ma la Turchia ha già firmato con l’Agenzia atomica dell’Onu, gli accordi di garanzia e un protocollo aggiuntivo, per la totale trasparenza. Come gli Emirati arabi che hanno il programma nucleare civile più sviluppato della regione e tuttavia sono considerati «un membro esemplare del regime internazionale di non proliferazione» .
L’unico Paese arabo ad avere avuto un programma nucleare militare è l’Egitto: ma vi rinunciò nel 1968, aderendo poi alla proposta dello Shah di Persia di un Medio Oriente senza armi atomiche. Da allora, piuttosto che in centrali e arricchimento, l’Egitto ha investito diplomaticamente sull’eliminazione delle armi di distruzione di massa, il cui unico detentore nella regione, oggi, è Israele: una centrale a Dimona e un arsenale di almeno 200 testate atomiche.
Non è per difendere questo primato che Bibi Netanyahu si è scatenato contro l’accordo di Vienna (definito «un errore storico e scioccante»): le ragioni sono altre, più politiche. Israele non ha mai minacciato i Paesi vicini di usare il suo arsenale che non nega né conferma di avere: è un’arma difensiva, di «estremo ricorso». Ma ciò non significa che se ne escluda l’uso. Henry Kissinger ha scritto che all’inizio della guerra del Kippur, nel 1973, quando gli egiziani superarono il Canale e i carri siriani si avvicinavano alla Galilea, ci fu il rischio che gli israeliani potessero usare i loro ordigni atomici.
Il reportage da Israele
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