Non ho mai partecipato all’esaltazione né alla demonizzazione del sionismo. Chi lo assimila al razzismo e chi denuncia come antisemita ogni critica al sionismo, appartiene alla stessa categoria di fanatismo: una perdita di tempo retorica per non affrontare questioni ben più concrete.
Come tutti i risorgimenti nazionali – compreso quello italiano da Carlo Alberto al Piave – il sionismo è pieno di carica ideale e di brutalità conquistatrice. Ora prevale la prima, ora la seconda. In Israele domina sempre di più quest’ultima. Del resto le ultime elezioni le ha perse la versione laica e democratica e, vorrei dire, pragmatica del risorgimento ebraico; e le ha vinte il “religious zionism”, la pericolosa sovrapposizione di un nazionalismo politico a una fede religiosa.
“Vedo il Likud diventare molto più nazionalista e meno attento alla sua parte liberale. Oggi nel partito quando usi parole come democrazia, diritti umani, primato delle leggi, immediatamente ti danno del sinistrorso”, dice in un’intervista Dan Meridor, ex ministro, ex “principe” del Likud del quale era una voce moderata.
Prevale il tono baritonale di Netanyahu. Nei suoi precedenti governi Bibi aveva sempre cercato una foglia di fico che nascondesse la sua ambizione per una Grande Israele: nel 1996 diede la Difesa a un generale moderato; nel 2009 addirittura chiamò Ehud Barak in quella carica; due anni fa accettò Tzipi Livni come ministro della Giustizia e responsabile della trattativa con i palestinesi.
Proprio l’attribuzione dei due incarichi che aveva Livni, dimostra che nel suo nuovo esecutivo Bibi è convinto di non aver più bisogno di alcuna retorica pacifista. La ministra della Giustizia è Ayelet Shaked, una pasionaria dello stato etnico, convinta che la Corte suprema non debba avere alcuna autonomia istituzionale ma porsi al servizio della maggioranza politica. Per lei anche la radio dell’esercito, l’emittente più popolare in Israele, è troppo di sinistra.
Responsabile della cosi detta trattativa di pace con i palestinesi è Silvan Shalom. Il nostro Franco Frattini ancora si ricorda con stupore, quando, entrambi ministri degli Esteri, Shalom gli disse che il premier palestinese Salam Fayyad era un terrorista. Fayyad era così moderato e democratico che poco tempo dopo i vecchi coccodrilli di Fatah riuscirono a cacciarlo. L’uomo che ora dovrebbe riprendere il negoziato sullo stato palestinese, non ha mai nascosto di essere contrario a uno stato palestinese.
Lo è anche Tzipi Hotovely, l’ultima nomina di Bibi, ma non ultima fra i reazionari del nuovo governo. Hotovely è la nuova vice ministro degli Esteri: poiché il dicastero non è stato affidato a nessuno (per il momento Netanyahu lo tiene per se), Hotovely è il diplomatico di più alto livello dello stato d’Israele. La prima a stringere mani di ministri e ambasciatori stranieri. Ma Tzipi è una fondamentalista religiosa che osserva la negiah, la regola ebraica che vieta ogni contatto fisico fra i sessi. E’ la neo vice ministra a rassicurare il mondo in un’interista a Yedioth Ahronoth: “Anche il Grande Rabbino Hatam Sofer una volta strinse la mano alla regina d’Inghilterra… Se incontri rappresentanti stranieri, l’Halacha riconosce l’obbligo della gentilezza e del rispetto. Non sarà un problema”.
Ah, che fortuna. Hotovely, che per inciso è contro l’indipendenza palestinese e a favore della moltiplicazione delle colonie ebraiche, può stringere la mano agli uomini e ai goym, se sono ministri e ambasciatori. Il paese fra i più avanzati e globalizzati del mondo, l’ “unica democrazia del Medio Oriente” sono salvi.
Bibi Netanyahu e il suo governo pieno di nazionalisti religiosi, rabbini askenaziti, sefarditi, e haredim, i timorati di Dio, realizzeranno la loro idea di sionismo muscoloso e fondamentalista come fossero su Marte: in un pianeta deserto, senza arabi né ossigeno.
In America, Europa, in Arabia e perfino fra gli Hezbollah impegnati sul fronte siriano, di questi tempi Israele e la questione palestinese sono l’ultima delle priorità mediorientali. Fra le battaglie di Ramadi e Palmira, fra Tripoli di Libia e Tobruk, il fronte sunnita dei sauditi e quello scita degli iraniani, nessuno vorrebbe vedere scoppiare anche un’altra intifada. Ci penseranno loro, i sionisti marziani.
Allego tre articoli su Arabia Saudita, Russia/Usa ed Egitto, usciti in questi giorni nelle pagine del Sole-24 Ore.
https://www.facebook.com/ugo.tramballi.1/posts/675653142538745:0
https://www.facebook.com/ugo.tramballi.1/posts/679844348786291:0
MATTEO E IL CARO ABDEL
Solo due mesi fa Abdel Fattah al Sisi, dismessa da poco la divisa da generalissimo, aveva invitato a Sharm el Sheikh governanti e imprenditori di tutto il mondo, esortandoli a investire sul nuovo Egitto: il raddoppio del canale di Suez, porti, centri industriali e commerciali. Dieci miliardi di dollari in progetti, per cominciare. Come può pensare di essere convincente un regime che guarda al XXI secolo e contemporaneamente condanna a morte i suoi oppositori? Le sentenze dei giudici egiziani non hanno nulla a che vedere con la giustizia e tutto con la vendetta politica. Quello che cercano gli investitori di tutto il mondo, in tutto il mondo, è ordine e stabilità. Mettere a morte centinaia di Fratelli musulmani, compreso il loro leader – ed ex presidente egiziano esautorato da un golpe – non è ordine ma prescrizione per future instabilità. E’ la prova di un regime impaurito, non di un sistema sicuro di se. Matteo Renzi era stato l’unico capo di governo occidentale ad andare a Sharm el Sheik, a parlare di quanto l’Italia sia storicamente ed economicamente legata all’Egitto. Giusto. Questo ora gli da’ il diritto e il dovere di dare un colpo di telefono all’amico al Sisi.