Intervistato da uno dei giornalisti che in questi giorni affollano il lungomare di Copacabana, un bambino ha dato una risposta folgorante alla domanda su cosa sia per lui il calcio: “Jugadores jugando”.
Giocatori che giocano. In questo mondiale brasiliano, così spettacolare, tutti hanno giocato almeno una volta. L’Iran per 92 dei 93 minuti della sua partita con l’Argentina, il Ghana con la Germania forse nell’incontro più intenso della fase a gironi. Perfino noi abbiamo giocato almeno una volta, battendo l’Inghilterra. In tutti i mondiali alla fine vince il migliore. Ma in questo, organizzato nel Luogo del calcio, bisogna essere giocatori che giocano dall’inizio e senza pause.
Noi non lo siamo stati con la stessa continuità. Vedendo la velocità e la precisione delle altre squadre, c’è da chiedersi se non sia stato un miracolo essere almeno arrivati in Brasile. Ma questo non giustifica lo stupido autolesionismo del “per fortuna che siamo usciti”. C’è sempre stato ma nel secolo del social network è stato come buttare sterco nel ventilatore: la stupidità si è sparsa ovunque.
Se escludiamo la solita modica quantità d’intellettuali del “non guardo il calcio, non guardo San Remo”, la massa degli autolesionisti è la stessa che in caso di vittoria sarebbe scesa in strada a festeggiare fino all’alba. Quella che pensa che l’Italia sia il Paese al centro del mondo, il più stimato, il più globalizzato, il più invidiato solo perché di tanto in tanto vinciamo un Mundial.
Ma questa volta è accaduta una cosa diversa, sorprendente come può esserlo un virus sconosciuto. Il razzismo. Da milanista storico (appartengo al gruppo originario della “Fossa dei Leoni”) non ho mai pensato che Balotelli fosse un campione: un calciatore di qualità si, ma non altro, probabilmente destinato all’immaturità permanente. Ma averlo trasformato dentro lo spogliatoio della nazionale, sui giornali e nell’agorà del web nel capitano Dreyfus del calcio italiano, è scandaloso. La finzione del giudizio tecnico e morale non riesce a nascondere un’ aspirazione al razzismo.
Non c’è popolo al mondo che ne sia immune. Solo nella nostra maldestra e disneyana percezione dell’essere italiano, pensavamo di esserlo: non eravamo razzisti fino a che non avevamo negri in casa; ora che ne abbiamo uno perfino con la maglietta azzurra, scopriamo che è irritante. Peggio, insopportabile. E se quel negro fortunato fallisce, è un tradimento alla nostra tolleranza di buoni piantatori della Georgia.
L’altro giorno sono andato a vedere Brasile Camerun nella piazzetta di una favela che domina Rio De Janeiro. E’ stata una festa di umanità e di colori. Non sfugge neanche a me, malato di calcio, quanto il pallone sia un fenomenale oppio per i popoli. Non intendo nemmeno fare il retorico paragone fra Pil (Prodotto interno lordo) e Pif (Prodotto interno della felicità). Felicità che tuttavia la vittoria del Brasile sul Camerun ha profuso a piene mani fra i vicoli della favela di Rocinha.
La povertà è una cosa concreta e ancora diffusa in Brasile, a dispetto dei suoi successi economici. Ma le cose stanno cambiando anche nelle favelas: i narcos e i vigilantes contano un po’ meno, la legge un po’ di più; ci sono più prospettive economiche, più scuole e iniziative sociali.
Rio ha una peculiarità: le sue favelas non sono all’estrema periferia della città. Ci sono dentro: scendi da Rocinha e in pochi minuti arrivi a Copacabana. I confini urbani fra ricchi e poveri sono labili, le abitudini di vita e la cultura della favela influenzano il resto della città. Questo ha permesso a un Paese che è stato profondamente razzista – e dove ancora la classe politica è bianca – di marciare verso un glorioso melting pot. Loro si allontanano dal razzismo e noi ci sprofondiamo.
Ho alleviato la sconfitta dell’Italia e l’evidenza della nostra inadeguatezza tecnica e morale, prima con tre eccezionali cai pirinhas in una bettola consigliata da un amico, ad alcuni isolati dal lungomare di Copacabana; poi tuffandomi nella grande festa multinazionale e multirazziale che si celebra prima, durante e dopo ogni partita, quale sia il risultato.
Anche un fallimento ha i suoi aspetti positivi. Fra questi c’è la rottamazione di Giancarlo Abete che per sette anni ha osservato il montare della violenza e del razzismo negli stadi, l’inadeguatezza degli impianti, gli scandali nel mondo del calcio come fosse un ignaro passante e non il presidente della Figc.
Viva l’Italia dunque. Fra quattro anni in Russia si vince alla faccia di quelli del “per fortuna che siamo usciti”. Se non sarà fra quattro anni, sarà fra otto in Qatar. E se al Qatar tolgono il Mundial causa mazzette (perché, Putin come ha avuto il suo?), andremo dove ci diranno di andare. Comunque prima o poi, qui o là, si vince.