E se con il rapimento dei tre giovani coloni israeliani fosse iniziata la terza Intifada palestinese? Lo sostiene Dan Segre, una delle poche grandi firme del glorioso “Giornale Nuovo” fondato da Indro Montanelli il 25 giugno di 40 anni fa, che ancora scrive nel “Giornale” di oggi.
Dan è uno di quegli israeliani – un altro è il demografo Sergio della Pergola – con i quali ogni volta che dissento ho il sospetto di avere torto. Non sono sicuro che i palestinesi abbiano metabolizzato gli effetti devastanti della seconda Intifada iniziata alla fine del 2000, quando la loro economia tornò indietro di dieci anni: migliaia di morti, di arresti, un orribile muro a rendere ancora più pesante la loro prigionia. Vittime degli israeliani. E di Arafat, colpevole di aver sacrificato un popolo, sapendo di non poter vincere.
La prima Intifada, scoppiata nel 1988, fu invece un successo per i palestinesi: fu combattuta con le pietre e la disubbidienza civile, più che con il terrorismo e la violenza senza sbocco. Costrinse gli israeliani a chiedersi cosa ci facessero nei Territori a occupare la terra che apparteneva a un altro popolo.
Non so se i palestinesi siano pronti per una nuova grande rivolta né quali mezzi sarebbero disposti a usare. Tuttavia, se Dan dice che con il rapimento dei tre ragazzi israeliani, l’Intifada è ricominciata, sollevo le antenne. Effettivamente i palestinesi sono disperati come nella prima. Come allora non c’è un negoziato di pace, il governo israeliano è cieco, sordo e brutale, alternative alla lotta non ne esistono. E come nella seconda Intifada, i palestinesi non hanno una leadership meritevole di questo nome. Abu Mazen è vecchio e incapace e Fatah è un sodalizio di burocrati. Hamas, orfano dei Fratelli musulmani egiziani, è attaccato come un pugile suonato al mito della lotta permanente.
Il rapimento dei tre giovani israeliani non è tanto un atto di terrorismo quanto un segnale di disperazione palestinese. Un segnale da Intifada. Uno dei tre ragazzi ha 19 anni, i suoi coetanei sono già a militare; è anche la stessa età del palestinese ucciso l’altro giorno dagli israeliani. Gli altri due rapiti hanno 16 anni, una stagione della vita in cui molti palestinesi già finiscono in galera.
Non voglio sembrare così cinico da non preoccuparmi per le loro vite. Pongo solo la vicenda nel suo contesto: i tre giovani non sono stati rapiti sul lungomare di Tel Aviv ma nei Territori occupati da 47 anni. Un israeliano che decide di viverci, in molti casi con motivazioni ideologiche, sa che corre dei rischi. Come i palestinesi che vivono nel pericolo di essere malmenati o uccisi dai giovani coloni estremisti che sradicano i loro ulivi; che rischiano le fucilate e l’arresto nei raid dei militari israeliani; che possono morire nelle ambulanze bloccate ai posti di blocco che dividono la gente dai loro ospedali, dalle scuole, dai luoghi di lavoro.
Hebron, dove gli israeliani pensano si siano nascosti i rapitori, è una città nella quale poche centinaia di coloni israeliani estremisti e violenti tengono sotto scacco 180mila residenti palestinesi. Secondo voi cosa è più facile che produca questa realtà: ingegneri o terristi e rapitori?
Israele ha il diritto di cercare di liberare i suoi tre giovani e ha ragione ad arrestare di nuovo quei palestinesi che erano stati liberati in base agli accordi di pace, quando la trattativa esisteva. Ora che il negoziato è morto e si stanno dissolvendo le ragioni a favore della soluzione dei due Stati per due popoli, si torna alla legge della jungla: gli israeliani riarrestano, propongono di rendere ai palestinesi di Cisgiordania la vita più invivibile di quanto già non sia. E i più pazzi e disperati fra i palestinesi rapiscono israeliani.
Abu Mazen ha condannato con un certo ritardo il rapimento. Ma col passare dei giorni ha deciso di agire e collaborare con gli israeliani perché ha capito che la temperatura della piazza palestinese sale pericolosamente. “Sono esseri umani come noi e dobbiamo fare in modo che tornino alle loro case”, ha detto Abu Mazen dei tre giovani coloni, scegliendo una platea importante: l’incontro a Jeddah dei ministri degli Esteri dei Paesi islamici.
Ma Netanyahu e il suo ministro della Difesa, l’ex generale Moshe Ya’alon dichiaratamente contrario a uno Sato palestinese, non hanno accolto l’offerta di collaborazione. Forse pensano di avere l’opportunità di dare un colpo mortale a Gaza e Hamas, ignorando le piazze della Cisgiordania in subbuglio e soprattutto quello che sta accadendo attorno, in Medio Oriente. Immaginatevi una terza Intifada fra l’instabilità egiziana, la guerra civile siriana, milioni di profughi in Libano e Giordania e l’assalto jihadista in Iraq.