William Cleveland, il capo del controspionaggio cinese dell'Fbi di San Francisco, aveva un'amante, Katrina Leung. Credeva di essere il solo, invece lei se la faceva anche con l'agente speciale James J. Smith. Cleveland credeva inoltre che la donna fosse una sua fonte nella comunità cinese in California. Era vero il contrario: erano lui e Smith che inconsapevolmente davano informazioni a lei. Katrina Leung era un agente del ministero per la Sicurezza di Stato a Pechino. Anche nello spionaggio, come scrive David Wise in "Tiger Trap. America's Secret Spy War With China", i cinesi sono concorrenti più insidiosi dei russi durante la Guerra Fredda. Fra i milioni di immigrati negli Stati Uniti, i reclutatori di Pechino manipolano il desiderio innocente di «aiutare la modernizzazione del Paese». Intanto la povera Cina ha comprato i porti all'imboccatura del canale di Panama e a partire dal 2015 diventerà il secondo partner commerciale dell'America Latina, insidiando gli americani nel "giardino di casa". Sono questi i segni di una decadenza geopolitica? La CII, la Confindustria indiana, il mese scorso spiegava che fra il giugno 2010 e il giugno 2011 gli investimenti internazionali in India sono aumentati del 310%, moltiplicando i posti di lavoro. In America l'occupazione è a crescita zero per la prima volta in 70 anni. È un messaggio preoccupante per la stagnante, indebitata e pur ricca superpotenza globale? Secondo lo storico Paul Kennedy sì. «L'America si ridimensionerà, con che misure finanziarie non saprei dirlo, dipenderà dalla battaglia politica ed elettorale dei prossimi 18 mesi. Ma penso che si ritirerà da Afghanistan e Iraq, che non manderà più eserciti smisurati in Medio Oriente e Asia. Manterrà i suoi impegni con la Nato e il Giappone, ma non aprirà nuovi fronti. Non ha alternative». Un quarto di secolo fa Kennedy aveva scritto un libro per spiegare che, come tutti gli imperi, anche quello americano iniziava la sua decadenza. Lo pubblicò mentre Ronald Reagan vinceva la Guerra Fredda e fu preso per matto. Una nazione che non può minacciare gli eventuali nemici di aprire fronti di guerra non può più essere il poliziotto del mondo. Senza il supporto economico che le aveva permesso di diventarlo, l'America non può più essere come la descriveva due anni fa Hillary Clinton: «Ha responsabilità ovunque e la natura delle sfide con cui ci confrontiamo non è solo bilaterale e multilaterale. È transnazionale». Il potenziale d'instabilità che la possibile fine dell'"eccezionalismo americano" comporta è gigantesco. Perché gli israeliani e i sauditi contano sugli Usa per la loro sicurezza; i rivoltosi egiziani, libici e siriani per la loro democrazia, i palestinesi per uno Stato, i petrolieri per avere ordine, colombiani e messicani per vincere i cartelli della droga. Ed è con Washington che iraniani e coreani del Nord vogliono parlare del loro nucleare e i russi del Trattato di non proliferazione. Per necessità economica, realismo diplomatico e probabilmente anche per scelta ideologica, Barack Obama sta amministrando con tutta la gradualità possibile un passaggio epocale. «Credo nell'eccezionalismo americano» spiegava al vertice Nato di Strasburgo, due anni fa. «Esattamente, sospetto, come gli inglesi credono al loro eccezionalismo e i greci a quello greco». Lo avrebbe detto se non ci fosse stato l'11 settembre, se l'amministrazione Bush avesse reagito diversamente, se non avesse fatto crescere il deficit e permesso a Wall Street di fare quello che voleva? La risposta non esiste perché quel giorno in cui caddero le Torri è accaduto. Per definire l'evo in cui anche l'impero americano ha iniziato il declino del suo incontrastato potere mondiale, forse la Storia sceglierà l'11 settembre 2001. Gli attentati sono stati un po' come quello di Sarajevo del 1914: un mondo sarebbe cambiato comunque, ma un singolo episodio ne ha accelerato il mutamento. Come Gavrilo Princip, anche Osama bin Laden in qualche modo ha ottenuto una vittoria. Non ha creato un califfato, i giovani della Primavera araba non lo hanno mai invocato come modello. Ma ha spinto l'America a incagliarsi in Medio Oriente, mostrandone limiti prima sconosciuti. Come dice Aaron Miller, ex negoziatore di pace americano fra israeliani e palestinesi, «una grande potenza è stata coinvolta in una regione che non può cambiare e dalla quale non si può ritirare». Se guardiamo quello che sta accadendo in Medio Oriente, in Afghanistan e in Iraq la vittoria americana non si misura più su come prevalere sui nemici ma su quando e come andarsene. «La migliore strategia d'uscita è la vittoria», dice Henry Kissinger. «Un'altra è la diplomazia. Ma se identifichi l'uscita con il ritiro, rinunci al tuo obiettivo politico». Una nazione diventa superpotenza quando accanto alla sua ricchezza sa esibire un popolo in armi. Il secolo americano raggiunse il suo culmine con lo sbarco in Normandia e la liberazione dell'Europa. Ha iniziato a declinare nell'ultimo decennio quando la ricchezza ha iniziato a scemare e il popolo a rinunciare al sacrificio collettivo, mandando a combattere gli ultimi della società. Nel 2006 solo un laureato di Princeton aveva scelto la carriera militare, nessuno delle altre università della Ivy League. E uno solo di loro veniva da una famiglia di militari. È Dostojevskij a scrivere che una classe dirigente incomincia a declinare quando «vuole fondare la giustizia solo sulla ragione». © RIPRODUZIONE RISERVATA |