Lunedì arriva in Italia l’emiro del Qatar. Sheikh Hamad bin Khalifa al Thani non è un emiro qualunque e non lo è solo perché è l’uomo di governo più ricco del mondo. Forse anche l’Italia riformata da Mario Monti diventerà un mercato appetibile per i suoi investimenti. Per i forse 100 miliardi di dollari del fondo sovrano e degli altri incalcolabili miliardi di una holding controllata direttamente dalla casa al-Thani. Forse ci venderanno più gas, di cui abbiamo molto bisogno: il Qatar è il più grande esportatore mondiale di gas liquefatto ma garantisce solo il 7% del nostro fabbisogno.
Sono cose importanti. Ma è dell’emiro, della sua idea di Qatar e di Medio Oriente che voglio parlare. Una volta il panarabismo era interpretato da un militare socialista alla guida di un Paese geograficamente vasto, poverissimo, popolatissimo e super-armato. Cioè Nasser e l’Egitto. Oggi l’interpretazione più dinamica del mondo arabo è un emirato grande come una provincia italiana, con 225 mila abitanti più un milione di lavoratori stranieri. L’esercito è piccolo, gli arsenali minimi anche se riforniti delle migliori tecnologie. Il ministero dell’Informazione non esiste dal 1998, sostituito da al-Jazeera: vi piaccia o meno, quella prima tv satellitare araba da allora non ha ancora smesso di risvegliare caoticamente le menti del Medio Oriente. L’inesistenza di una massa critica militare è invece sopperita dai forzieri stracolmi e dalle inesauribili riserve di gas naturale.
Hamad al-Thani è invidiato e detestato come tutti i ricchi pieni di idee. E’ accusato di professare democrazia ovunque tranne che in Qatar. L’anno prossimo dovrebbero esserci le prime elezioni legislative promesse da oltre un decennio. Ha rapporti personali, economici e politici con tutti: Stati Uniti, Europa, Israele, Hamas, Hezbollah. A Doha c’è la più grande base americana nella regione e il primo ufficio di rappresentanza all’estero dei Talebani. “Può il Qatar essere un alleato americano il lunedì e mandare soldi ad Hamas il martedì?”, si è chiesto una volta John Kerry. Perché no? Dove finisce l’ambiguità della politica e incomincia l’intelligenza?
Per provare a capire il fenomeno Qatar e la sua angst di essere grande a dispetto della natura, è di Hamad al Thani che vi voglio parlare. Preannunciando di essere di parte: per me lui è un genio. Più o meno come re Hussein di Giordania: se i loro Paese avessero avuto la massa critica di un Egitto, un Iraq o un Iran, oggi il Medio Oriente sarebbe migliore e il mondo un posto un po’ più tranquillo.
Nel 1995 Sheikh Hamad depose il padre perché il vecchio Khalifa voleva scegliere un altro figlio come successore e perché voleva che il Qatar restasse una placida penisola di pescatori di perle e beduini. Ricca quanto bastava per vivere nei decenni nell’oscurantismo wahabita: la famiglia emirale è imparentata con i vicini al Saud. Due anni più tardi il golpe senza spargimento di sangue (il vecchio si trasferì per sempre a Roma, regolarmente visitato dal figlio perdonato), andai per la prima volta in Qatar. Mi incuriosiva che fosse diventato il primo Paese arabo a voler chiudere il ministero dell’informazione e a parlare di elezioni. Non erano abituati ad avere giornalisti, l’arrivo di uno occidentale era un evento in città. Venni discretamente contattato da sheikh Abdulrahman, ex studente di Harvard, cugino e consigliere dell’emiro, poi diventato capo del suo diwan. Presto mi ritrovai nell’ufficio di sheikh Hamad. Da allora ci siamo incontrati molto spesso: a volte per interviste ufficiali ma le cose più interessanti erano le nostre chiacchierate off the record. Voleva sapere le mie idee sul Medio Oriente ma soprattutto lui mi diceva le sue. I giudizi su Arafat e Mubarak erano spassosi anche se politicamente pericolosi.
Il profilo della corinche di Doha allora era rappresentato solo dall’hotel Sheraton con una strana forma di piramide maya. Ero perplesso quando l’emiro mi raccontava dei suoi progetti. Poi mi fece incontrare e intervistare Sheikha Mozah, la seconda delle tre mogli. Bellissima, elegantissima, intelligentissima (“24”, il magazine del Sole-24 Ore, fu il primo al mondo a intervistare il modello più somigliante a una first lady della penisola arabica e a pubblicarne una foto). Anche lei era presa da un’ansia di modernità che non avevo né avrei mai più trovato in nessuna classe di potere araba. Volevano mostrare al mondo che gli arabi ce la potevano fare. Quando intervistai l’emiro prima della sua precedente visita in Italia (il presidente allora era Ciampi), il giorno prima c’erano stati gli attentati islamici alla metropolitana di Londra. “E’ colpa nostra, di noi arabi. Siamo noi che dobbiamo debellare questo nostro cancro”, disse.
E’ vero: i giornali del Qatar non criticano mai la famiglia dell’emiro. Mi chiedo in Italia quanti giornali lo facciano con i loro editori. E vero: al Jazeera fa anche propaganda. Ma se era detestata allo stesso modo da Mubarak, dai sauditi, da Assad, dagli israeliani e i neocon dell’amministrazione Bush ne volevano bombardare la sede, qualcosa significherà. Il Qatar paga, arma e sostiene politicamente tutte le Primavere arabe ma in Bahrain ha mandato i soldati a sostenere la normalizzazione imposta dai sauditi. E’ l’ambiguità di cui parlavamo prima: l’ambiguità che in politica cerca di connettere moralità, interesse nazionale e ideali. I termini della realpolitic locale al Thani me li spiegò una volta a registratore spento: nel Golfo i progressi di un Paese non possono superare esageratamente quelli in un altro. In altre parole: accanto all’Arabia Saudita non può nascere una piccola Svezia.