E’ giusto che la Primavera egiziana finisca così: normalizzata dai militari, da un disegno e una determinazione più forti di quelle mostrate – meglio, mai esibite – da chi aveva dato avvio all’illusione. Se in piazza sono tornati in pochi a protestare nonostante il golpe bianco del vecchio potere, è perché non c’era più niente da difendere. La cosiddetta rivoluzione egiziana era finita molto tempo fa.
Pensare che un gruppo di giovani borghesi colti, con un computer e un accesso a Internet potessero cambiare l’Egitto: si sono illusi loro e ci abbiamo creduto noi. Abbiamo anche creduto che altri giovani meno fortunati di loro ma altrettanto decisi, li seguissero per mutare un Paese immobilizzato da 30 anni di potere dello stesso uomo, 60 di dittatura militare e alcune migliaia di sistema di governo piramidale. Ci hanno creduto e a noi faceva tanto piacere credere che con un click di portatile fosse andata al potere la fantasia: qui, in questa palude socio-economica, col 40% dei suoi 90 milioni di abitanti che vivono con meno di due dollari al giorno.
Nessuno può dimenticare il loro coraggio, i circa 900 morti, il loro incredibile successo iniziale. Chiunque lo conosca, si rende subito conto che l’Egitto è cambiato: c’è più libertà, i giornali sono diventati leggibili, la gente parla. Sarebbe ingiusto ignorare quello che i ragazzi di piazza Tahrir hanno fatto. Ora tutti dicono che da quelle conquiste non si torna indietro: chiunque governerà non le può ignorare. Ma nessuno può giurare che sia davvero così o non si tratti di un esercizio consolatorio di fronte alla grande sconfitta.
Hanno creduto di fare una rivoluzione politica con il web, trasformandolo da un mezzo a un fine. Come se la rete avesse il potere taumaturgico di guarire i mali dell’Egitto. Da piazza Tahrir non è emersa una forza politica né leaders capaci di far maturare il movimento se non dentro un’agorà virtuale. Mubarak ancora doveva cadere e loro già si dividevano, litigavano per un invito della Cnn ad Atlanta. Ma politicamente non uscivano dalla piazza, un cortile conosciuto, rifiutandosi di crescere e farsi contaminare dalla politica reale.
A un dibattito a Ferrara, al quale avevo partecipato, il sindacalista e Blogger Hossam el-Hamalawy, sosteneva che intenzionalmente il movimento non si era dato un leader: “In Egitto abbiamo avuto troppi faraoni”, spiegava. Per molto tempo mi sono chiesto se l’affermazione fosse stupida o presuntuosa. Adesso so che era l’una e l’altra. Hossam non voleva leaders: le idee e i popoli ne hanno invece bisogno. I convegni e i festival dovrebbero essere più selettivi e meno entusiasti quando invitano i bloggers arabi. Quanto meno dovrebbero capire che non rappresentano nessuna rivoluzione. Di solito parlano per se stessi e pochi altri. Al massimo sono un’ipotesi che fra un paio di generazioni potrebbe produrre qualcosa di concreto.
I militari che non guidano la transizione dell’Egitto ma la loro dentro l’Egitto, preparavano la trappola istituzionale e loro combattevano fra loro “La Battaglia di Facebook”, insultandosi e scontrandosi sul social network attorno a tematiche da canarino. E hanno continuato a farlo in questi giorni, estendendo il capo di battaglia a Twitter. Intanto gli intellettuali e i giornalisti, i maestri dell’opportunismo (in Italia non ne abbiamo il monopolio), dopo aver fatto i pifferai della rivolta annusavano l’aria e si rimettevano in marcia per tornare al vecchio padrone.
Come l’estremismo fu la malattia infantile del comunismo, così il web è stata l’affezione puerile della Primavera egiziana. Giovani bloggers, avete fatto troppi danni al vostro Paese: adesso diventate maturi e rifatevi vivi alla prossima generazione.