Secondo gli addetti ai lavori – ma per queste cose dovremmo essere tutti un po’ addetti ai lavori – quando ogni giorno muore di stenti una persona su 10mila, in quel campo profughi è emergenza umanitaria. Laggiù a Jamam il tasso di mortalità fra gli adulti è già di 1,8 ogni 10mila. Fra i bambini di 2,8: muoiono 9 bambini al giorno, il 65% dei quali disidratati da diarrea acuta.
Solo al campo di Jamam con 35mila rifugiati. Solo in uno dei campi del Sud Sudan e solo una parte dei 120mila profughi fuggiti dal Sudan. Solo nel Sud Sudan che sta per compiere il suo primo anno di vita. Solo in un piccolo Paese dell’immensa Africa.
Il Fondo Monetario Internazionale dice che l’economia della parte sub-sahariana del continente quest’anno crescerà del 5,4%. Un buon tasso, data la grande crisi. La Banca africana di sviluppo spiega che si è formata una classe media “piuttosto elastica” di 300/500 milioni di africani. Una categoria che occupa l’impreciso spazio sociale fra l’immensità dei poveri e una élite molto ristretta di molto ricchi. La forza della cosi detta borghesia africana è relativa: il settore più basso ha un reddito di 4/10 dollari al giorno, il più alto di 10/20. Chi rende così elastica la classe media sono i “fluttuanti”, la fascia di redditi fra i 2 e i 4 dollari al giorno. In Africa basta poco perché a milioni precipitino nel baratro come i profughi di Jamam.
E’ Medici Senza Frontiere che lancia l’allarme in un suo comunicato che, come i precedenti, finisce nelle redazioni, di solito agli Esteri, in fondo alla pila delle notizie del giorno: l’eurocrisi e le crescenti difficoltà dei Brics, il massacro siriano, le elezioni in una qualche Primavera araba, la macchina del voto in America, il viaggio all’estero del Capo dello Stato, un’altra tragedia africana più “fortunata” di quella a Jamam.
“La vita dei rifugiati dipende al 100% dall’assistenza umanitaria. Servono aiuti d’emergenza. Subito!”, grida fra le righe del comunicato il direttore generale di Medici Senza Frontiere Italia, Konstantinos Moschochoritis. Potrebbe non essere ascoltato, qualsiasi cosa dica. Bisogna avere fortuna; saper bucare lo schermo in un mondo di cattive notizie; commuovere il caporedattore il quale, soppesando il comunicato fra le mani, comunque si chiederà: “Se dò 30 righe a Medici Senza Frontiere, domani quante altre Ong mi chiameranno?”. Così va il mondo.
E’ come vendere un prodotto. Anche se i 35mila di Jamam, avanguardia disperata dei 120mila del Sud Sudan, sono esseri umani che oggi precariamente ci sono e domani forse non più.
A loro serve acqua. E’ stagione di piogge ora. Di acqua ce n’è molta ma è sbagliata. In un certo senso i profughi di Jamam e degli altri campi sono bagnati giorno e notte ma stanno morendo di sete. Si ammalano di polmonite e ipotermia, di malaria e dissenteria. Il monsone trasforma i campi in laghi melmosi e malsani, fa tracimare le latrine, rende impossibile scavare i pozzi per trovare acqua potabile. Come fai a mettere tutto questo mondo di fango, merda e volti in un comunicato stampa?
“Queste persone sono fuggite da violenze terribili in Sudan e hanno perso i loro familiari durante il difficile viaggio in cerca di salvezza. Adesso si trovano nei campi rifugiati, seduti su terreni allagati e muoiono per malattie facilmente curabili”. E’ l’invocazione di Tara Newell che a Jamam coordina le emergenze di MSF.
Provate a immaginarvi Tara, dentro una tenda, nella melma, incapace di contenere la diarrea dei 9 bambini che moriranno entro oggi. Sapendo che fallirà anche con quelli che le statistiche hanno già condannato domani. E dopodomani, il giorno dopo e ancora dopo. Buttato nel fango, un messaggio in bottiglia non fa molta strada.
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