Se qualcuno della compagnia di giro mediorientale avesse proposto una scommessa di cattivo gusto – dove sarà compiuto il prossimo passo della guerra civile siriana? – chiunque di quella compagnia avrebbe detto Beirut. Non la Turchia, troppo forte e determinata per essere provocata. Il Libano, il solito Libano che tutti amano e tutti odiano: debole, ipotetico miracolo di convivenza fra religioni ed etnie della regione, in realtà campo di battaglia di quei conflitti.
Un’auto bomba ad Ashrafiye, il cuore della Beirut cristiana, fra i vicoli stretti, i balconcini e le persiane che ricordano un po’ Napoli e un po’ Marsiglia. Almeno otto morti e una settantina di feriti. Sembra di essere tornati agli anni ’80. A pochi metri da piazza Sasine dove è scoppiata l’ultima bomba, 30 anni fa i siriani avevano fatto saltare in aria Bashir Gemayel, presidente neo-eletto del Libano e ultimo vero capo del Kataeb, la Falange cristiano-maronita. E negli anni successivi l’offensiva delle “voitures piégées” che esplodevano un giorno si e uno no a Beirut Est, a Junie, Doha, Brumana, Baabda, Byblos, Zahle, ovunque nella parte di Libano controllato dai cristiani.
Similitudini piuttosto ovvie. Ma sono anche i miei ricordi. Ero a Beirut in quegli anni e ogni volta che uscivo in strada, camminavo istintivamente e inutilmente lontano dalle auto parcheggiate. Era impossibile perché Beirut è una città di auto parcheggiate. La stagione del tritolo seguiva quella dei cecchini che dai loro nascondigli prendevano di mira la gente giusto per tenere un po’ alto il livello del terrore collettivo.
Nonostante tutto, credo di amare ancora più
di Gerusalemme e del Cairo quella città bella, cinica, vittima e artefice del
suo sfortunato destino. E’ per questo che violo il dettato di questo blog dedicato
a una più lenta lettura delle notizie, e scrivo quando il fumo avvolge ancora
casa.
Allora il motore principale di questo vivere
nel terrore quotidiano era la Siria. Al di là di ogni altra causa politica
contingente, a Damasco si sentivano non a torto defraudati: i francesi avevano
staccato la provincia libanese dal resto della Grande Siria per dare un rifugio
ai cristiani della montagna. Ma uno Stato sul Mont Libàn non poteva vivere,
così vi unirono anche la costa dove vivevano in maggioranza i musulmani sunniti.
Il germe del caos settario fu iniettato alla nascita. Scoppiata la guerra
civile nel 1975, i siriani usavano tutti i mezzi e i mestatori di ogni fede per
impedire che il Libano tornasse alla calma.
Ma pur con il valido contributo dei palestinesi
e della Lega araba, a destabilizzare il Libano furono prima di tutto i
libanesi. Un grande intellettuale cristiano, Ghassan Toueni, scrisse un
mirabile libro: “Une guerre pur les autres”. Il Libano, era la sua tesi, stava
pagando con una terribile guerra civile (di fronte alla quale il conflitto
siriano per il momento ancora scolorisce) il suo tentativo di creare uno stato
democratico e multiconfessionale. Era vero anche questo. Ma i libanesi avevano
entusiasticamente concorso a trasformare il loro Paese nella sentina di tutti i
problemi regionali, sperando che la loro setta ne guadagnasse qualcosa.
L’ultima bomba di Ashrafiye è il segnale di
qualcosa di non molto diverso. Forse sono i siriani che vogliono allargare il
loro conflitto di oggi, edulcorando il confronto fra un regime oppressivo e una
richiesta di libertà, in uno regionale, geopolitico, etnico e religioso. Forse
è Hezbollah che vuole alleggerire le difficoltà dell’alleato Assad,
contribuendo ad allargare il conflitto. O forse no. Come negli anni Settanta e
Ottanta, sono molti i libanesi desiderosi di ricominciare daccapo. Dopo 22 anni
dalla sua fine, qualcuno ha dimenticato cosa furono 15 anni di guerra civile
per il Libano; altri hanno da saldare vecchi conti rimasti aperti; altri ancora
ne hanno di nuovi, pensano che i tempi siano maturi per un nuovo assetto del
Libano. Hezbollah, per esempio, è un partito libanese; ci sono poi i salafiti e
jihadisti sunniti, qualche estremista cristiano pazzo di una comunità che non è
più potente e che sta lentamente scomparendo; e i palestinesi costantemente
disperati dei campi profughi. L’assassino in Libano non si trova mai perché attorno
al luogo del delitto i sospettati sono sempre troppi. Alla fine c’è sempre un
emiro del Golfo pronto a ricostruire una Beirut ogni volta più brutta.