Triliardi e morti di fame

Assomiglia a una marcia trionfale quella di Donald Trump attraverso il Golfo Persico e/o Arabico: la Casa Bianca ancora non si è espressa sul nome ufficiale da dare anche a questo golfo. Re, principi ed emiri; miliardi e miliardi d’investimenti, bitcoins, armi, nucleare civile, progetti immobiliari, golf club e jumbo jet. Ma c’erano due convitati di pietra in questa festosa processione di ottimismo e benessere: Gaza con il suo massacro quotidiano e Bibi Netanyahu, il premier israeliano.

Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita (non è un’iperbole chiamarlo il leader del mondo arabo), ha presentato a Donald Trump il nuovo presidente siriano Ahmed al Shara: e l’americano lo ha benevolmente accolto come un figliol prodigo nella sua nuova visione di cornucopia mediorientale.

Alla conferenza Usa-Golfo il re del Bahrein, Hamad al Khalifa, ha elogiato il presidente anche per aver aperto il dialogo con l’Iran. Gli emiratini lo hanno ringraziato per avere ascoltato i loro consigli riguardo agli Huthi. Lo stato maggiore americano aveva già programmato otto mesi di bombardamenti per fermare i missili yemeniti. Mohamed bin Zayed aveva però ricordato che cinque anni di guerra non erano serviti, suggerendo invece di trattare con gli Huthi. Trump lo aveva ascoltato e ora anche gli ex ribelli sciiti yemeniti sono in qualche modo dei compagni di strada. Senza contare gli emissari americani che hanno negoziato con Hamas la liberazione di un ostaggio con doppia cittadinanza israeliana e americana.

Ex jihadisti come il siriano, estremisti sciiti, miliziani palestinesi: Trump ha violato la regola diplomatica secondo la quale con i terroristi non si deve trattare. Era stato il presidente di un Israele diverso da quello di oggi, Ezer Weizman, a ricordare che è col nemico che alla fine si deve parlare per raggiungere una pace. Neanche ai suoi tempi, in realtà, Weizman fu molto ascoltato.

Come un cesare al ritorno dalle Gallie, questa volta Donald Trump ha più di una ragione per vantarsi. Col realismo e il cinismo di un uomo d’affari, sta realizzando mutamenti che la diplomazia tradizionale non aveva raggiunto: contribuisce a cambiare il Medio Oriente senza fare uso dell’inarrivabile potenza militare americana: almeno per ora.

Ma in questo profluvio di ricchezza e buone intenzioni, poco più a Nord, a Gaza, la gente sta morendo di bombe e di fame. Sono 18mila i bambini palestinesi uccisi dagli israeliani in 19 mesi di guerra, e altri 700mila ora rischiano di morire di fame. I ricchi stati del Golfo non hanno mai amato la causa palestinese, costretti a sostenerla elargendo petroldollari. Ma grazie ai comportamenti del governo di Gerusalemme, neanche per loro è sostenibile quello che sta accadendo nella striscia. Non possono fare affari con il leader oggi forse più detestato del mondo.

Aprendo la conferenza, Mohammed bin Salman ha ricordato che per questo nuovo Medio Oriente occorre una “soluzione sostenibile per la causa palestinese”. E il suo ministro degli Esteri e cugino, principe Faisal bin Fahran ha garantito che Trump è pronto a prendere “decisioni molto coraggiose”: cessate il fuoco a Gaza e “un cammino verso la soluzione della complessa questione della Palestina. Si spera – ha aggiunto -verso uno stato palestinese”.

Esagerando i suoi poteri taumaturgici, Donald Trump avrà forse promesso che convincerà Netanyahu a fermare la guerra di Gaza: un Golfo così ricco per amico non può che servire a Israele. In caso contrario, gli arabi che hanno aderito agli accordi di Abramo ritireranno la firma e chi ha promesso di iscriversi non lo farà.

A rigor di logica, Trump dovrebbe farcela: la solida alleanza fra Israele e Stati Uniti è vitale per il primo, non per i secondi. Non è tuttavia il raziocinio che guida i passi del governo di Gerusalemme. E’ l’estremismo dei nazional-religiosi convinti di essere a un passo dalla cacciata dei palestinesi e dal Grande Israele; è il crescente smarrimento di Netanyahu, più interessato alla sua sopravvivenza politica che al futuro del paese; è lo stato maggiore che prepara nuovi piani di battaglia per una pulizia etnica spacciata per sicurezza nazionale.

 

  • carl |

    Comincerei dai cosiddetti “accordi di Abramo”.. Infatti mi è capitato di sentire un “quasi tuttologo” dire che in realtà dovrebbero essere definiti “accordi di Ismaele”.. Mah? Lascio a qualcun’altro tranciarlo..
    E passerei ad altro.
    “..I ricchi stati del Golfo non hanno mai amato la causa palestinese..” e qui viene confermato il detto popolare che “Tutto il mondo è paese..”, nel senso che spesso è piuttosto vero che i ricchi di solito non amino granchè i poveri e perfino li disprezzino. Non solo, ma può anche accadere che magari si autoconvincano che il fatto che loro siano ricchi e che i poveri non lo siano sia un segno degli dei o (nel Golfo) di Allah e viceversa, ossia che se loro invece sono ricchi, ciò significa che…
    Nell’articolo la frase si chiude con l’aggiunta che i stati del Golfo sono: “..costretti a sostenerla (la causa palestinese) elargendo petroldollari.”. Petroldollari stampati dagli USA. E qui vien da chiedersi come nessun consulente abbia mai suggerito agli stati del Golfo di rendere le loro pariah-monete convertibili in gas e petrolio..! Beninteso, non è che così facendo le loro monete diventerebbero delle cosiddette monete di riserva.. Tuttavia, non sarebbero più delle monete intoccabili e del tutto finanziariamente ignorate.
    Infine, ma no.. Meglio lasciare spazio ad altri eventuali commentatori.

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