Se il primo presidente pregiudicato nella storia degli Stati Uniti assale la magistratura, si vendica di generali e senatori avversari, minaccia i giornali, perché i suoi bardi non dovrebbero fare altrettanto? Perché Recep Erdogan non dovrebbe imprigionare il suo avversario e qualsiasi autocrate, o con l’ambizione di diventarlo, non dovrebbe fare altrettanto?
Se Donald Trump vuole conquistare la Groenlandia e annettere il Canada, perché Vladimir Putin dovrebbe fare concessioni a Volodymyr Zelensky; Xi Jinping rinunciare a Taiwan; Bibi Netanyahu non pensare a un Grande Israele e annettere i territori occupati? Alla Knesset la maggioranza di estrema destra ha appena votato una “legge fondamentale” (l’equivalente di una norma della Costituzione che Israele non ha) che impone il nome biblico di Giudea e Samaria: d’ora in poi “West Bank” sarà un’indicazione geografica illegale. Come il Golfo del Messico sostituito dal Golfo d’America.
L’avversario di questa internazionale dell’autoritarismo in espansione, una volta sarebbe stato Washington. Oggi l’America di Donald Trump ne è promotore e guida. E’ come se a regimi, in questo campo più addestrati di lui, il presidente americano dettasse la linea.
Bibi Netanyahu, che pure aveva incominciato a cambiare il sistema israeliano diverso tempo prima, ne è un aedo speciale. Gli obiettivi primari sono come sempre giudiziario, difesa e sicurezza nazionale, e stampa. Il premier israeliano denuncia – come Trump – di essere vittima del “deep state”, quello stato profondo presumibilmente gestito da pochi per pochi. Ma è difficile per Bibi sostenerlo, essendo stato premier per 18 anni (tre più di David Ben Gurion), una quindicina dei quali quasi ininterrottamente.
Il problema d’Israele, legato alla sua sopravvivenza come stato moderno e democratico, non è la guerra che sta combattendo da 18 mesi: la tregua è stata solo un breve periodo carico di tensione. Il problema è lo scontro interno; fra laici e religiosi, democratici e illiberali, passato e futuro. Quando Netanyahu vinse per la prima volta le elezioni nel 1996, Shimon Peres sintetizzò così il problema: “Ha perso Israele, hanno vinto gli ebrei”.
Anche in America ci sono similitudini. La nostra preoccupazione è come Trump voglia risolvere i conflitti internazionali. Ma la vera minaccia è interna: come e quanto il presidente stia minando le norme democratiche americane. Al giudice che gli aveva intimato di fermare le deportazioni illegali, Trump ha risposto di voler eliminare quel “matto radicale di sinistra”. Il presidente della Corte Suprema John Roberts, repubblicano, si è limitato a rispondere che le minacce erano “inappropriate”, senza mai riferirsi al presidente.
Anche Netanyahu è all’assalto di quelle cariche dello stato che garantiscono l’equilibrio fra i poteri. E’ appena stata votata una mozione di sfiducia per far dimettere la Procuratrice generale dello stato Gali Bahav-Miara. Qualche giorno prima Netanyahu aveva licenziato Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, l’intelligence interna: Bahav-Miara aveva congelato la decisione, ritenendola illegale.
Nonostante i costi di una guerra senza soluzione, è stato approvato un Bilancio dello stato che garantisce fondi importanti alle scuole ultra-religiose i cui partiti sostengono la maggioranza di governo. I loro giovani continuano ad essere esentati dal servizio militare. A questa parte della società interessa poco il sionismo: basta ci sia uno stato che paghi. I partiti nazional-religiosi, al contrario, pretendono di costruire anche con le armi uno stato biblico. Più o meno come l’Isis e il califfato.
Il paese è ormai gravemente spaccato fra due comunità e due modi d’intendere Israele. Ma la differenza con gli Stati Uniti è che laggiù Trump sta cambiando il sistema senza una vera opposizione, ancora incapace di reagire alle follie presidenziali. “Se non fosse il mio paese, tirerei fuori i pop-corn e guarderei lo show”, diceva qualcuno.
In Israele no. Nonostante una guerra, gli oppositori non smettono di manifestare. Come era accaduto durante la prima Intifada alla fine degli anni Ottanta, un numero crescente di giovani riservisti rifiuta la chiamata. L’asse illiberale sempre più forte, ha una sola debolezza: se fallisce in un paese, entra in crisi anche negli altri.