Donald Trump “certamente cade nella generale definizione di fascista, di sicuro”. L’opinione, espressa prima delle elezioni, aveva lasciato interdetti parte dell’America, dell’Europa e degli asiatici di Giappone e Corea del Sud. Incolpare di questo il candidato repubblicano alla presidenza, pareva azzardato. Provocatorio dopo la sua vittoria.
Quello che gli alleati degli Stati Uniti e i commentatori occidentali potevano ammettere era che i prossimi quattro anni sarebbero stati difficili: una montagna russa col turbo nelle relazioni internazionali conosciute fino ad ora.
Servirà realismo, evitando attribuzioni ideologiche, munendosi al contrario di una notevole dose di pragmatismo. Probabilmente, era il sentire generale dal Pacifico al Mediterraneo, dalla Finlandia al Sudafrica, gli effetti peggiori del trumpismo si vedranno dentro l’America: scetticismo sulle vaccinazioni, razzismo, diritto all’aborto negato; il laicismo istituzionale dei padri fondatori, trasformato in una nuova teocrazia cristiana. Forse anche il tentativo di cambiare alcune regole del gioco democratico, imitando l’ungherese Orban.
In realtà l’accusa di avere comportamenti fascisti non l’aveva lanciata un estremista come Bernie Sanders (in Europa sarebbe un normale social-democratico). Il giudizio era di John Kelly, un ex generale dei Marines e chief of staff: cioè il ciambellano della Casa Bianca, braccio destro del presidente ai tempi di Trump.
Ma, continuavamo a insistere, la politica estera sarebbe rimasta sostanzialmente immutata; alleanze e sfide della superpotenza mondiale sarebbero rimaste le stesse con poche variazioni. L’istinto isolazionista di MAGA sarebbe stato stemperato da un mondo inesorabilmente interconnesso nonostante la crisi della globalizzazione. Forse Donald Trump avrebbe davvero mantenuto la promessa elettorale di chiudere le due più importanti guerre: Ucraina e Gaza. Non in ventiquattr’ore come affermava nei comizi ma certamente entro il 2025.
Il suo modo di concepire il mondo, lo scetticismo riguardo alle alleanze costituite e il suo ignorare le regole della diplomazia, forse avrebbero fatto il miracolo. Volodymyr Zelensky avrebbe ceduto Crimea e parte dell’Est e Vladimir Putin riconosciuto l’ingresso dell’Ucraina nel sistema Nato-Europa. E, spinto da Trump, Benjamin Netanyahu avrebbe fermato l’insensata guerra di Gaza (non al punto da aprire un negoziato per lo stato palestinese) perché ciò che interessa del Medio Oriente al prossimo presidente, è fare affari con l’Arabia Saudita.
Le guerre sono in fondo un ostacolo a chi vuole fare business. Il grande affare dei conflitti è la ricostruzione che tuttavia può iniziare solo quando una guerra finisce.
Poi Donald Trump ha fatto le nomine. Ed è diventato legittimo temere che quella differenza tra comportamenti interni e dimensione internazionale degli Stati Uniti, non ci sarà. La filosofia – se così la si può chiamare – sarà la stessa. La prossima segretaria all’Educazione è la moglie del presidente della federazione americana del wrestling. Quello alla Difesa è un personaggio televisivo che ha tatuato sul petto una croce e la frase “Deus vult”, lo vuole Dio: lo disse nel 1095 papa Urbano II, annunciando la prima crociata.
Pete Hegseth, il segretario alla Difesa nominato, gestirà un bilancio di oltre 841 miliardi e ha promesso che farà strage fra i quasi 3 milioni di soldati attivi, della riserva e dei civili che dipendono dal Pentagono. Come è difficile prevedere qualcosa di buono da Tulsi Gabbard, incaricata di governare le 18 agenzie americane d’intelligence, dalla Cia in giù. Gabbard, che non ha alcuna esperienza in quel delicato settore, ha più volte manifestato simpatia per Putin e per il siriano Bashar Assad.
I profili dei prossimi ministri sono già stati tutti sviscerati. Ma quello che di loro è la prerogativa, è di essere degli anti-sistema (democratico). Presentarsi come un Robin Hood quando invece è lo sceriffo di Nottingham, è la caratteristica di Donald Trump da che è in politica.