I democratici che credono nella scaramanzia avrebbero volentieri evitato un’altra convention a Chicago. E’ dove nel 1968 il partito implose negli insanabili contrasti fra moderati e radicali, fra sostenitori e oppositori alla guerra in Vietnam. Dai campus universitari, gli scontri fra giovani e Guardia Nazionale si trasferirono attorno all’International Amphiteatre, dove si svolgevano i lavori.
Per l’America e soprattutto per i democratici, il ’68 era stato un anno tragico. La guerra, il ritiro dalla corsa presidenziale di Lyndon Johnson; a giugno l’omicidio di Bob Kennedy e due mesi prima quello di Martin Luther King. Tuttavia la convention di Chicago non fu storica solo per questo: come quella repubblicana di Miami, fu l’ultima vera assemblea nella quale si decise chi dovevano essere i candidati alle presidenziali di novembre. Negli anni successivi la convention sarebbe diventata quello che è oggi: un happening politico, la formalizzazione di ciò che è già stato deciso altrove.
Fino al 1968 i due partiti sceglievano i candidati attraverso i causus, assemblee teleguidate in ogni stato dai boss di partito: il sindaco di una grande città, il governatore, un senatore. La selezione dei delegati che sarebbero andati alla convention per eleggere il candidato presidente era negoziata a porte chiuse.
Il clima caotico del 1968 spinse il partito democratico a cambiare le regole. I repubblicani resistettero un po’ di più. Ma fra il 1972 e il ’76 fu impossibile opporsi a una riforma che trasformava un processo poco trasparente, quasi privato, in un sistema interamente pubblico e trasparente. Ormai ogni elezione, dal governatore al senatore, dal giudice distrettuale allo sceriffo, passa attraverso una primaria. Nel processo elettorale 2024 solo Missouri, Iowa, North Dakota, Wyoming e Nevada hanno ancora i caucus.
Così la convention democratica di Chicago sarà un’esibizione, un passaggio di campagna elettorale per un partito unito attorno a Kamala Harris. Mai quanto la convention repubblicana di Milwaukee, un mese fa, trasformata da Donald Trump in un esempio di cesarismo americano.
In realtà se Joe Biden si fosse rifiutato di ritirarsi per evidenti limiti d’età, la convention democratica avrebbe uno svolgimento diverso. La riforma delle primarie prevede anche l’eventualità del “chiunque tranne lui”: fermare il candidato vincente quando è evidente che non abbia speranza di vincere o sia immorale presentarlo. I repubblicani moderati ci provarono nel 2016, fallendo nel tentativo di fermare Trump.
Se Biden si fosse presentato a Chicago come il candidato, i democratici non sarebbero uniti come sembrano oggi.
C’è tuttavia un’altra guerra, come nel 1968, che rischia di dividere i democratici: quella di Gaza. La convention di Chicago diventerà l’ultimo fronte – sebbene non cruento ma politico – di quel conflitto, dopo il Libano, l’Iran, il mare davanti allo Yemen. Ci saranno molte manifestazioni e forse qualche incidente.
I musulmani e gli arabi americani come gli ebrei americani votano tradizionalmente democratico. Una delle due comunità potrebbe sentirsi non abbastanza ascoltata per come l’amministrazione Biden sta gestendo il conflitto mediorientale; né dai segnali che Kamala Harris estrapola dal suo ancora vago programma di politica estera. I musulmani e gli arabi americani sono concentrati in Michigan, uno stato necessario per vincere le presidenziali. Ma quattro americani su cinque sono favorevoli a Israele.
Diversamente da Biden, Kamala Harris appartiene a una generazione politica che ha legami più tenui con Israele. Ma anche lei dovrà tener conto degli elettori “indipendenti”, la maggioranza del corpo elettorale americano, rispetto a coloro che si dichiarano democratici o repubblicani.
Nel 1968 la guerra in Vietnam fu decisiva nella campagna elettorale. Nel 2024 Gaza non lo è: il Medio Oriente né l’Ucraina determineranno il voto di novembre. E’ dalla fine della Guerra Fredda che non è la politica estera ad eleggere un presidente americano.