Per aver parlato di “carneficina americana” nel giorno inaugurale della sua presidenza, gennaio 2017, il discorso di accettazione l’altra notte può essere considerato moderato. Almeno per i canoni di Donald Trump. Aveva promesso di unire un paese diviso e nel tentativo si è servito della provvidenza divina: salvandolo dall’attentato, Dio ha evidentemente deciso che il prossimo presidente sarà lui.
Qualche insulto qua e là: “Crazy Nancy” per la democratica Pelosi. Le solite bugie: al confine meridionale è in corso “la più grande invasione della storia”. Ma per l’uomo che alla tribù MAGA si era presentato come “il vostro castigo”, è un passo avanti affermare di voler “diventare presidente di tutta l’America”. Ciò che comunque svela il vero Trump non è il discorso di Milwaukee ma Project 2025. E’ il programma presidenziale preparato da Heritage Foundation, thik-tank della destra radicale. Nelle sue 900 pagine non c’è traccia di pietà per gli avversari.
Nella storia americana sono altri i discorsi che hanno unito nei momenti di crisi. Per esempio quello improvvisato di Robert Kennedy a Indianapolis, il giorno in cui fu assassinato Martin Luther King. “Ciò di cui abbiamo bisogno è amore e saggezza, compassione l’uno verso l’altro e un sentimento di giustizia verso coloro che soffrono, siano bianchi o neri”. In quell’occasione Kennedy citò anche Eschilo. Quella sera Indianapolis fu l’unica metropoli americana dove non sarebbe esplosa la rabbia della comunità nera.
Ma due mesi e un giorno più tardi, il 5 giugno 1968, anche Kennedy sarebbe stato assassinato. Perché è difficile sapere cosa serva davvero all’America per superare i suoi cronici soprassalti di violenza politica, iniziati pochi anni dopo la sua indipendenza.
Quelle del 1796 furono davvero le prime vere elezioni fra due partiti: le due precedenti erano state un plebiscito per George Washington. Quell’anno fu contesa spietata tra il federalista John Adams e Thomas Jefferson del Partito democratico-repubblicano: il primo a favore dell’industria nascente e della stabilità inglese; il secondo dei proprietari terrieri e della Francia rivoluzionaria. Lo scontro fu violentissimo. Non ci furono morti ma otto anni più tardi la rivalità fra il vicepresidente Aaron Burr e l’ex segretario al Tesoro Alexander Hamilton si risolse con un duello. Morì il secondo.
E’ presto per definire il profilo politico di Donald Trump e il segno che lascerà. Linguaggio e mimica sono più da teatrante che da statista. Ed è difficile che possa accadere che citi Eschilo. Ma delle qualità le deve avere. L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, la telefonata registrata al segretario di stato della Georgia per trovare la manciata di voti necessaria per vincere; il rifiuto del risultato elettorale del 2020, le imputazioni e le condanne. Niente di tutto questo ha indebolito Donald Trump. Piuttosto è la democrazia americana ad essere stata indebolita.
Nel 2016, quando decise di entrare in politica, in un’intervista J.D. Vance disse che Donald Trump “vede il peggio nella gente e incoraggia il peggio della gente”. Ora è l’acclamato candidato vice-presidente nel ticket repubblicano, fedele al punto da accusare Joe Biden di essere il mandante morale dell’attentato a Trump.
Vance è l’esempio più lampante, certamente il più interessante, del graduale ma inarrestabile e monolitico slittamento del partito che fu di Abraham Lincoln, verso Donald Trump. In ogni forza politica democratica esistono minoranze, voci critiche, sfidanti alla leadership. La convention repubblicana è stata una versione colorita nella sceneggiatura ma grigia nel dibattito politico, di un vecchio congresso sovietico. Nel Pcus, nella grande sala del Cremlino, il segretario chiedeva all’assemblea “kto protiv?”, chi è contrario? E nessuno alzava il braccio. E’ accaduto anche al Fiserv Forum di Milwaukee, Wisconsin. Un altro passo di Donald Trump nel tentativo di assomigliare all’amico Vladimir Putin.