Se fosse confermato, vivo o morto che sia, aver preso Mohammed Deif sarebbe un colpo importante per Israele. E’ il capo delle brigate Qassam, l’ala militare di Hamas e il principale ricercato dopo Yahya Sinwar, il leader del movimento islamico palestinese.
Era Deif uno dei pianificatori e il comandante dell’attacco del 7 ottobre: 1.200 israeliani uccisi e più di 250 ostaggi. Cambierebbe dunque qualche cosa di questa guerra entrata nel decimo mese – oggi il 282° giorno – che sembra essere senza una fine? Probabilmente no.
Si farà più complicata l’ennesima trattativa per una tregua, una liberazione di ostaggi e nuovi aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. Il premier Bibi Netanyahu affermerà che la morte o la cattura di Deif dimostra che la vittoria è vicina. Il che non è vero: gli israeliani avevano già ucciso Yahya Ayyash, Salah Shahade, i predecessori di Deif. Un terzo, Hassan Salameh sta scontando un ergastolo in una prigione israeliana. Eliminato un comandante militare o un leader politico, Hamas ne fa un altro, più estremista del precedente.
Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato una minuziosa inchiesta su come i palestinesi stanno combattendo: “How Hamas is Fighting in Gaza”, un piccolo capolavoro d’informazione.https://www.nytimes.com/2024/07/13/world/middleeast/hamas-gaza-israel-fighting.html?searchResultPosition=1 Cinque giornalisti hanno intervistato soldati semplici e ufficiali dei due fronti, esperti militari e politici; visionato migliaia di video. La lettura conferma ciò che dagli americani in giù, tutti i migliori amici d’Israele e perfino gli alti comandi militari dello stato ebraico, continuano a dire a Netanyahu: è impossibile sradicare Hamas da Gaza.
Da una specie di esercito aggressore in divisa, dopo il 7 ottobre le brigate Qassam si sono trasformate in movimento di guerriglia pura. Hanno evitato battaglie frontali, attendendo gli israeliani fra le macerie e la popolazione. Vestono abiti civili, portano sandali e ciabatte come la gente attorno a loro. Quando decidono di colpire, escono in quattro da un tunnel (gli stessi israeliani ammettono di averne distrutti solo una piccola parte). Un membro della squadra è sempre armato di videocamera: il filmato che riporta nel tunnel ha più effetto delle armi imbracciate dagli altri tre.
Da quando sono iniziate le operazioni terrestri gli israeliani hanno perso quasi 350 uomini: molto meno delle previsioni ciniche ma professionali dei vertici militari. Tuttavia ad Hamas servono più i bilanci dei civili palestinesi uccisi dagli israeliani che gli israeliani uccisi da loro. I civili fra i quali si nascondono sono la loro arma più efficace: ogni massacro israeliano si trasforma in una formidabile risorsa propagandistica.
“Se qualcuno prende un’arma da sotto un letto è una giustificazione per uccidere in una scuola e distruggere un ospedale?”, chiede Mousa Abu Marzouk dell’ufficio politico di Hamas, in esilio in Qatar. E’ un’ammissione, non hanno scrupoli per i loro civili. Ma dovrebbe anche essere un dilemma morale per l’esercito del paese che dice di essere l’unica democrazia del Medio Oriente.
Combattendo fra la gente, alla fine Hamas non provoca importanti perdite militari al nemico. L’obiettivo delle sue imboscate è sfidare Israele a uccidere migliaia di gazawi. E Israele non si tira indietro: nell’operazione per prendere Deif i militari hanno ucciso più di 70 civili.
L’opinione pubblica israeliana non sembra ancora preoccuparsi di queste stragi, come invece fece dopo il massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila, nel 1982 in Libano. Ma nel resto del mondo questa guerra danneggia gravemente l’immagine del paese. Mai Israele è stato così criticato e condannato dalla comunità internazionale.
Facendo infuriare Netanyahu, qualche settimana fa il portavoce militare Daniel Hagari aveva ammesso che Hamas non è solo un’organizzazione terroristica ma anche “un’idea”. La storia dimostra che la prima si può sconfiggere, la seconda no.